La difesa di Gabriele si gioca la carta della “tortura”

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Paolo Gabriele non si sente colpevole di furto aggravato. Semmai si dichiara colpevole di aver tradito la fiducia di Benedetto XVI. Ma allo stesso tempo, la linea difensiva che sembra emergere è quella del complotto ai suoi danni. Nega di aver mai avuto la pepita d’oro che gli è stata ritrovata nelle perquisizioni, e nega anche di aver mai avuto l’assegno da centomila euro. Ammette solo che “nella degenerazione del suo disordine” potevano esserci capitate. Ma accusa anche di essere stato per venti giorni in una cella “così stretta da non poter allargare le braccia”, dove non c’era l’interruttore, con la luce accesa notte e giorno, tanto da causargli l’abbassamento della vista. Accuse che portano il presidente del Tribunale di Città del Vaticano Dalla Torre ad aprire un fascicolo a parte. E la Gendarmeria risponde con un dettagliato comunicato, in cui fa capire che ci sono anche gli estremi per una contro-denuncia a Paolo Gabriele.

Processo in Vaticano, atto secondo. È il giorno della testimonianza di Paolo Gabriele, l’unico tra quelli chiamati a parlare a non dover giurare sul Vangelo. Poi, sfilano davanti ai tre magistrati vaticani Giuseppe Pesce, gendarme vaticano; Cristina Cernetti, Memores Domini al servizio del Papa; Georg Gaenswein, segretario particolare del Papa; e i due gendarmi Gianluca Gauzzi Broccoletti e Costanzo Alessandrini. Solo l’ultimo non era stato sentito in fase istruttoria, e fa parte dei cinque gendarmi chiamati a testimoniare da Cristina Arru, l’avvocato di Paolo Gabriele. Gli altri quattro parleranno mercoledì, poi ci sarà un giorno di pausa (giovedì il Papa è in viaggio a Loreto, e non si sovrapporrà processo e viaggio papale), e poi venerdì o sabato le arringhe del promotore di giustizia vaticano e dell’avvocato e la sentenza. Un processo breve, anche perché Gabriele è stato trovato in flagranza di reato.

E il maggiordomo del Papa dice che, sì, lui “sapeva di aver dovuto prima o poi pagare le conseguenze delle sue azioni”, e che quando ha capito che il cerchio si stringeva intorno a lui ha pensato prima a confidarsi con il suo padre spirituale (di cui non vuole ripetere nome e cognome reso in istruttoria, forse per la presenza dei giornalisti, e dice solo che si chiama padre Giovanni). Non ha parlato con il Papa, Paolo Gabriele, anche se ne avrebbe avuto la possibilità, dato che mangiava insieme a tutti gli altri. Ma si è confidato con quattro persone, che sono il cardinal Comastri, il cardinale Sardi, Ingrid Stampa e monsignor Cavina, che da gennaio è vescovo di Carpi ma che era stato officiale in Segreteria di Stato.

Gabriele parla con orgoglio del suo precedente lavoro in Segreteria di Stato, sostiene che tutti lo avvicinavano con favori, che addirittura doveva andare al lavoro in macchina per non farsi avvicinare da nessuno (o per portare con più agilità le fotocopie?).

Ma si contraddice: dice di non aver avuto mai originali e di aver cominciato la raccolta nel 2010, ma Gaenswein testimonia che non solo ha visto “alcuni originali” tra le carte, ma che questi “risalgono anche ai periodi 2007-2008-2009”. Si nota la sua ossessione per la Gendarmeria vaticana, e l’accusa che proprio la Gendarmeria lo abbia maltrattato. Ma la Gendarmeria risponde con un comunicato in cui spiega ogni provvedimento, e c’è anche nella sentenza di rinvio a giudizio la citazione di 39 provvedimenti per migliorare la sua situazione carceraria. Altro elemento di contraddizione: Ingrid Stampa e Sardi erano segnalati in un articolo di Paul Badde come corvi (articolo poi ripreso da diversi media). Articolo però stralciato dal processo su richiesta dello stesso avvocato di Paolo Gabriele.

Dichiarazioni sconclusionate, che fanno tornare alla mente la perizia di parte di Cantelmi in fase istruttoria, quando addirittura si invocava la non procedibilità in giudizio di Gabriele per insanità mentale.

Gabriele però si mostra consapevole del suo lavoro. Dice di aver fotocopiato anche in presenza di altri, e quando Gaenswein dice che non avrebbe mai pensato a un tradimento, la sua bocca si allarga in un sorriso. “Che facesse fotocopie era lontanissimo dalla mia immaginazione”, afferma Cristina Cernetti, Memores, che però nel momento del redde rationem (la riunione del 21 maggio in cui Gaenswein riunisce la famiglia pontificia) aveva già capito che era lui ad aver fatto passare i documenti, una idea che gli era venuta semplicemente facendo un ragionamento “per esclusione”. E i gendarmi chiamati a testimoniare, cui viene continuamente richiesto se hanno usato i guanti nella perquisizione, fanno sapere che no, non hanno usato i guanti, ma che Gabriele – e anche la moglie e i figli – sono sempre stati presenti durante la perquisizione.

Mentre si cercano di rimettere insieme i pezzi, durante il briefing, in un momento di embargo totale per i giornalisti accreditati, Gianluigi Nuzzi – l’autore del libro che ha portato all’arresto di Paolo Gabriele – tweetta fasi del processo di cui non potrebbe essere a conoscenza, non essendo né tra i giornalisti in aula, né tra quelli accreditati in Sala Stampa. Chi gioca per il maggiordomo e contro il Papa?

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