“L’architetto è ciò che trasmette”. Intervista a Rafael Moneo, uno dei più celebri architetti del mondo.

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Quali sono le virtù che valuta nel lavoro ed, in genere, nella vita?

È una fortuna lavorare in qualcosa che ti interessa e che non ti condiziona, che non ti fa vedere il lavoro come una punizione. Nel caso degli architetti, è il modo in cui si configurano e lavorano nel mondo di quanto già costruito, aggiunto, di quanto complementa il paesaggio. Il dialogo con la città si avvera nel territorio di tutto quello che è stato progettato. Passato e futuro s’intrecciano. Lavoro con piacere ancora. Se capisci il lavoro come vocazione, alla fine non soltanto vedi il risultato del proprio lavoro, ma una realtà più ampia. È qualcosa che riguarda la vita stessa. Affascinante.

Lei è un architetto che risolve problemi nelle città. Cosa vuole raggiungere con la sua architettura?

Noi architetti, nella volontà di assimilare il nostro lavoro, pensiamo che questo sia autonomo. Questo lavoro si svolge in un mezzo nel quale c’è già tanta vita. Sono scarse le occasioni nelle quali l’architettura è indipendente, è qualcosa a sé stante. A me piacerebbe identificarmi con l’architettura che favorisce la continuità della città nel tempo, ma per un nuovo movimento. La mia preoccupazione è vedere in che modo l’edificio è una risposta poliedrica ad una realtà urbana, non sempre capace di essere raccolta in un unico punto di vista. L’architettura non deve dimenticare i criteri di razionalità, di miglioramento; cioè, l’ambiente.

Lei è l’architetto che ha progettato l’ingrandimento del Prado e a ristrutturazione di piazza di Santa Teresa ad Avila, che ha suscitato polemiche. Come prende le critiche?

Quando si costruiscono opere pubbliche, si capisce che debbano essere spiegate perchè risolvono situazioni conflittuali. Riguardo al Museo del Prado, credevo nella mia proposta. Bisognava liberarlo da tutti gli accessori sorti nel tempo, anche dai resti del Monastero dei Geronimi. Il chiostro si è smontato pezzo a pezzo. È stata una grande soddisfazione vedere come la gente ha accettato la sua complessità e sofisticazione, assimilando il progetto con tutta normalità. Questi giorni sono stato nel museo e vedevo la gente passeggiare con naturalezza nel palazzo: uno si rende conto fino a che punto il nuovo e l’antico vanno pari passo. Riguardo il progetto di Avila, la piazza è migliorata in pulizia ed eleganza, il parcheggio per le macchine è stato risolto e lascio aperta ad un’altra soluzione l’edificio di abitazione, che non è un problema di volume. Mi sarebbe piaciuto che fosse un albergo, ma non è stato possibile. In occasioni, le polemiche sorgono a causa di confronti politici e l’opposizione allora fu molto critica con l’opera. Provai dolore in quel momento. Adesso non lo vedo con tristezza, nemmeno con sofferenza. Vedo un progetto. In tutti c’è stato un grande sforzo. Bisogna dare del tempo all’architettura.

Il suo progetto più monumentale è stato la cattedrale di Los Angeles, in California. Cosa pensa dell’architettura religiosa oggi?

È stato il progetto più difficile della mia carriera. Oggi si affida all’architetto come individuo l’idea del sacro… Ma il nostro atteggiamento verso la religione è molto diverso da quello del tredicesimo secolo, quando tutto il mondo aveva la stessa idea sul sacro, di cui la cattedrale era il culmine: la sua costruzione era l’ultimo referente a Dio.

Dal Cinquecento in poi, la religione diventa più individuale. Mettere in mano ad un singolo individuo l’idea del sacro è una grande responsabilità. Oggi la Chiesa non è più onnipresente nella società, come avveniva nel Medioevo. Il sentimento religioso rimane più nell’ambito privato. Secondo me, questo cambiamento significa che l’architetto, trovandosi di fronte alla costruzione di un tempio, non può appoggiarsi nella società come insieme; bensì, la società richiede da lui l’accettazione come individuo del rischio di offrire agli altri la sua visione sul significato di questo spazio sacro.

Nella cattedrale di Los Angeles volevo rimandare alle chiese romaniche, gotiche, alla tradizione cristiana. Volevo che il Mistero fosse presente. Volevo creare spazi affinchè le persone potessero rimanere da sole con sé stesse, fatto molto difficile nei nostri tempi. La cattedrale di Los Angeles raccoglie molte delle architetture che trasmettono l’idea del sacro, ed è anche l’espressione della mia esperienza architettonica. In questo tempio sono presenti molti di quei spazi sacri che mi hanno commosso.

Com’è stato il suo rapporto con la gerarchia ecclesiastica, con il cardinale Mahony?

Il lavoro mi fu commissionato nel 1996, con la condizione di rispettare il luogo di costruzione della cattedrale, il downtown, posto di vitale importanza in una citta così dispersa com’è Los Angeles. Per me, la cosa più facile fu disegnare gli aspetti più urbanistici: sin dall’inizio avevo chiaro che la cattedrale doveva essere costruita nella parte più rialzata del terreno, per poter dominare la piazza; ho visto dove dovevano costruirsi il parcheggio, la residenza episcopale, il centro parrocchiale… avevo idee chiare, ma con il cardinale ho avuto punti di scontro, specialmente per quanto riguardava aspetti come l’inclusione delle opere d’arte all’interno della cattedrale, l’iconografia. Io sarei stato più avanguardista. Il cardinale desiderava che i fedeli non fossero indotti a confusione. L’iconografia risultante è più convenzionale. Sarebbe stata una buona occasione per creare un’altra estetica.

Per me la difficoltà era capire, dal punto di vista ideologico, cosa significa la costruzione di una chiesa, poichè costruendo una cattedrale si construiva la casa di Dio. Anche perché la mia esperienza come architetto non è estranea all’educazione che ho ricevuto dai gesuiti, educazione che per tanti versi mi avvicinava alle idee del cardinal Mahony. Tutto questo diventó una questione pulsante durante quel periodo, portandomi a non risparmiare sforzi ed a donare il meglio di me stesso. Sempre ho voluto pensare che è stata un’opera che non ho cercato, che mi è stata donata dal destino e che ho risolto con una certa dignità.

Quale è stata l’importanza della luce nel disegno della cattedrale?

Sin dall’inizio la luce è stata molto presente nella cattedrale, come lo è nella chiesa del quartiere di Riberas de Loyola, a San Sebastián, iniziata nel 2006, quando il vescovo era monsignore Juan Maria Uriarte e che ho completato con monsignore Munilla. La luce è parte della cattedrale, come succede anche in questa chiesa: marca gli spazi, crea una sensazione di pace, d’incontro. Ho sempre ammirato gli spazi di luce dell’architettura bizantina. Ho anche desiderato che la luce fosse percepita come presenza di Dio, come nell’architettura barocca. Cosí, la disposizione della croce nella cattedrale ci rimanda a questa nozione di luce del barocco, lei stessa fonte di luce naturale. Il disegno include la verticalità delle mura, le quali configurano la nave associata alla luce presente nelle cattedrali gotiche. L’architettura della nave del tempio ci appare avvolta da una atmosfera luminosa che ci allontana dal mondo esterno, e che rimanda al sacro.

È stato professore nella Scuola di Architettura di Madrid, a Princeton ed a Harvard. Cosa le piace trasmettere ai suoi studenti?

Spesso manca il copione, la responsabilità per la teoria. L’architetto è quello che trasmette. È cercare di capire come le cose prendono quell’aspetto. Questo vale anche per la vita, per il mondo esterno. L’architettura non è effimera. Poter condividere questa comprensione come territorio obbligato di conoscenza ha fatto che il contatto con gli studenti sia sempre stato presente nella mia vita. Il talento potrà affiorare, come anche la volontà di cambiamento. Bisogna capire, in questi momenti di crisi, che situazioni più modeste non sono impedimento per portare avanti proposte estetiche. Per plasmare il talento non ci vuole un grande edificio: il talento è presente anche in costruzioni minori.

Chi ammira?

Chi ha fede in un progetto, nella ricerca scientifica, chi lavora per gli altri. Ammiro chi è sicuro di quello che deve fare. E risponde. E non è in balia degli interessi personali, ma ha la volontà di donare qualcosa che gli altri non conoscono. Ammiro anche la capacità di alcuni nel donare la propria vita e quelli che ci portano ad una conoscenza del mondo. Tutto inteso in termini di azione. Sono importanti quelli che ci portano ad agire, chi è capace di sfruttare le risorse del mondo in beneficio di tutti.

Come vede l’architettura in questi momenti di crisi?

I tempi attuali hanno bisogno di una architettura più razionale. I tempi di ristrettezza ci permettono un’architettura più sostenibile, più misurata. Riguardo la crisi economica, la Spagna ed in genere l’Europa, saranno capaci di superarla.

(stralcio dell’intervista pubblicata sul numero di Settembre di “Mundo Cristiano”. Traduzione di Helena Faccia Serrano)

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