Scuola sfasciata, coronavirus e regole anaffettive. A volte misure drastiche sono buone, ma non si cresce da surgelati

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La scuola ricomincia – ovvero dovrebbe ricominciare a metà settembre, ma certo non lo è – con i banchi singoli. Senza il compagno di banco, specchio o muro che fosse, alleato o nemico. Quello da cui abbiamo imparato le leggi della solidarietà, o il loro rovescio, l’esclusione e il rifiuto. In ogni caso, la prima palestra etica fuori dalla famiglia. Condivido la riflessione sull’abolizione del compagno di banco, partendo dalle proprie esperienze scolastiche molto personali, dell’amico e collega Renato Farina su Libero di oggi.

Lucia Azzolina è nata il 25 agosto 1982 a Siracusa, in Sicilia. È docente di Scuola secondaria di secondo grado. A gennaio 2018, si è candidata alle Parlamentarie del Movimento 5 Stelle per la quota proporzionale Novara-Biella-Vercelli-Verbania-parte della Provincia di Alessandria (parte del collegio Piemonte 2), risultando la donna più votata. A seguito delle elezioni nazionali, il 19 marzo 2018 è stata proclamata deputata della Repubblica Italiana eletta nella XVIII Legislatura. Dal 16 settembre 2019 ha rivestito il ruolo di Sottosegretario al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca del Governo Conte II e dal 10 gennaio 2020 è Ministro dell’Istruzione.

Scuola sfasciata
“Delitto” della Azzolina, elimina il compagno di banco
di Renato Farina
Libero, 21 agosto 2020

L’anno scolastico che inizierà segna una nuova epoca. Non è questione dell’insegnamento con il computer e neppure delle lezioni da remoto. In fondo i compiti a casa erano una forma di scuola “in modalità da remoto”. E si può stare allo schermo dell’iPad fianco a fianco. L’evento epocale è che non c’è e non ci sarà più, dato il cristallizzarsi eterno delle cose nuove e temporanee, il compagno di banco. I banchi saranno d’ora in poi sempre con le rotelle a distanza semovente e crescente, con le rotelle per fuggire via dal Covid ma soprattutto da quel rapporto unico che a quelli delle generazioni degli ultimi secoli ha determinato i sottofondo di memorie, esperienze, senso della vita: il compagno di banco. Quello che le guerre e le pestilenze, il rischio del morbillo e della poliomielite, quello degli orecchioni e della varicella, non è riuscito a determinare, è riuscito a questo infinitesimo virus. Al Covid è bastato minacciare con un’occhiata il suo ritorno a settembre per determinare una rivoluzione radicale del costume con la soppressioni di uno degli elementi essenziali dell’infanzia e della giovinezza.

Com’è possibile che le associazioni dei presidi e degli insegnanti, i tecnici competenti dei comitati, tra cui ciò sono fior di pedagoghi e di psicologi, non si siano resi conto di un fatto tanto elementare, il cui prezzo ritengo sarà salatissimo, forse irreparabile? Non mi baso su trattati di sociologia, mi riferisco alla mia esperienza. Mi appello allo stesso modo a quella di ciascuno dei lettori. E mi appoggio però anche su alcuni dati inoppugnabili che i poveri diavoli come noi assorbono da molte fonti di solito litiganti. Da questi elementi, che tra poco citerò da dilettante ma raziocinante, non si vede ragione di salute fisica sufficiente per causare un danno così certo e senza rimedio di vaccino. Mi spiego.

Nulla di sperimentale

Il principio di precauzione consiglia e a volte obbliga a misure drastiche. Resta però, per definizione, anzi dovrebbe essere, qualcosa idoneo a diminuire un pericolo. Abrogare il compagno di banco elimina stante gli elementi conosciuti un bene certo per preservare da un male incerto e qualora capitasse – se leggo bene le statistiche – neppure mortale almeno per i ragazzi.

Per evitare equivoci e accuse facili, preciso: non sono un negazionista. Ho due amici che sono morti e una carissima amica che è stata tre mesi con il respiratore in gola, vivo a poca distanza da un ospedale che è stato epicentro di soccorso e di tragedia. Ma adesso si sta facendo strada un altro tipo di negazionismo: quello che scientificamente ignora la differenza tra il numero di morti e di malati sotto le macchine respiratorie al tempo del lockdown e quello sulle tabelle d’agosto. Pierluigi Battista, uno tra i giornalisti più seri in commercio, ha scritto alcuni giorni fa su Twitter (non sul Corriere dove lavora, lo avrebbero impalato): “Il lockdown totale è durato 56 giorni. Quello parziale 14. L’apertura totale (tranne scuole stadi e tribunali) 91 giorni. Il 18 maggio i morti quotidiani erano 99, le terapie intensive 742, gli ospedalizzati 10200. Oggi 4 morti, terapie intensive 56, ospedalizzati 805”. Sono un irresponsabile se ritengo molto più irresponsabile amputare, con l’ascia delle prescrizioni ministeriali, una parte dell’anima delle nuove generazioni?

Compagno di banco. Non c’è nulla di sentimentale in queste tre parolette. Nonostante siano state piuttosto strapazzate dai vocalizzi nostalgici di Antonello Venditti, sono uno di qui due o tre ossi dell’esistenza che resistono in questa società liquefatta. Scusate se vado sul personale, ma è sempre meglio che andare sull’impersonale. Li ricordo (quasi) tutti. Dalla prima elementare. A quei tempi, primi anni ‘60, era la maestra a imporci chi dovesse stare al nostro fianco. Era la scoperta di mondi nuovi. Io stavo in una corte brianzola di artigiani e bottai. Mi trovai al fianco prima un bambino veneto, Enrico, figlio di emigrati dall’alluvione del Polesine (lo scopro adesso ripensandoci), poi Francesco, un calabrese terzo di sette fratelli. La sera cuocevano sulla stufa i peperoni gialli, ne ricordo ancora il profumo. Particolare: abitavano in un “cascinotto” (baracca dei contadini). Ricordo che mio papà promise di portarci a un provino coi pulcini dell’Inter, ma si bucò la gomma. È finito in Germania, chiedo di lui ai suoi fratelli e mi dicono che me lo saluteranno. È parte di me, perché lo è stato. Non ci sarebbe stato nessun legame nel generico comunitarismo a rotelle che si instaurerà. Avrei avvicinato solo quelli del mio cortile, stesso accento, stesso dialetto, identico risotto.

Alle medie eravamo in una classe che ospitava i ragazzi dell’orfanotrofio. Il mio compagnino di banco era Carlo di Sesto San Giovanni, capelli a spazzola, tavolette di “surrogato di cacao” (mi ricordo la parola, la cercai sul vocabolario). Mi pesano qui le sue lacrime quando mi disse che i suoi genitori lo avevano lasciato lì perché si odiavano. Impossibile, un altro mondo. Mi venne a trovare dopo anni con una bicicletta da corsa. Era bravo. Aveva la fidanzata.

Norme anaffettive

Quanto al liceo. Il mio compagno di banco, leader del Pci, Giancarlo, napoletano, è morto senza che potessi salutarlo. Per amicizia con me veniva a vendere L’Unità fuori dai raduni di Comunione e liberazione. È la mia crepa nel petto. Ed ecco l’ultimo Marco, terza liceo, esami di maturità, biondo, il dongiovanni della classe, da me invidiatissimo, splendidamente superficiale. Ha finito per insegnare filosofia in seminario, una testa profonda. Ci vediamo con appuntamento fisso il primo lunedì sera di ogni mese. Ha avuto un cancro, anzi ce l’ha ancora, ma lo sta seducendo e mettendo ai suoi piedi come faceva con le belle ragazze del liceo.

I compagni di banco sono come congiunti, per loro non dovrebbero valere le regole anaffettive del Covid. Ripensateci. Non si cresce da surgelati. Precauzioni sì, attenzioni pure, ma senza uccidere le poche cose belle della vita.

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