Prendere un infarto a Ferragosto e raccontarlo. Un Giornalista che (ancora) sa fare il Giornalismo. Pochi ne sono rimasti come lui

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L’amico e collega Renato Farina – che miei lettori conoscono bene – ha spiegato a Ferragosto su Libero quello che gli è successo: “Il bello di raccontare un infarto [il suo…] a Ferragosto”. E traspare il suo granitico umorismo: “Ferragosto con l’infarto poteva essere meno interessante di così”.

Ecco, alla faccia di chi gli vuol male (soprattutto tra i suo colleghi, invidiosi e altro… che un giorno racconterò, perché sono testimone dell’origine di tanto sordo rancore, tanta risoluta ostilità verso di lui), è ancora tra noi. E prosegue a fare il mestiere che sa fare come pochi. Un Giornalista di razza, Renato, dei vecchi tempi, i tempi nostri.

A lui dedico un commento ieri di un amico ad un mio post su Facebook, su un’argomento che aveva a che fare con il mestiere di giornalista… un indice dello stato ridotto in cui giace: «Negli anni ’70 quando si cominciava ad avere un po’ di emancipazione e si poteva cominciare a ragionare per conto proprio, senza una palese censura nell’informazione, alla scuola media si studiava come viene fatto un giornale, cosa sia l’articolo di fondo, l’occhiello, l’articolo di spalla, il taglio alto ecc…, si studiava come essere concisi ma diretti ed esaustivi nello scrivere, ben diversamente rispetto alla prosa, i giornalisti erano persone che conoscevano la grammatica, la sintassi, erano persone di cultura, dalle quali prendere esempio. Oggi basta essere davanti ad una telecamera a leggere, e ci si ritrova “giornalisti”. Ci sono ancora nomi illustri che sanno fare giornalismo, ma sono pochi, una élite ristretta che diventa sempre più ridotta. Quanto poi ad approfondire e verificare ciò che si legge, prima di andare in onda o in stampa, sarebbe doveroso, ma vedi da te i risultati…» (Francesco de Zen).

Ecco, Farina è uno tra questi “nomi illustri che sanno fare giornalismo (…), una élite ristretta che diventa sempre più ridotta”. E sono felice per l’amico (e compagno di viaggio con San Giovanni Paolo II negli anni ‘90) che questo non è (e spero per molto tempo) una epigrafe. Anche lui “un personaggio indimenticabile”… e la cui amicizia per me è un vanto e un onore.

Il bello di raccontare un infarto a Ferragosto
Il mio Ferragosto a letto con l’infarto. All’ospedale fra angeli ed eroi
Il dolore e poi la corsa in ospedale. Ma a Desio ho trovato medici eccellenti. E in corsia si scoprono personaggi indimenticabili
Tutto è andato come i dottori mi dicevano da anni. Però resisto…
di Renato Farina
Libero, 16 agosto 2020

Non è bello arrivare in un sabato notte d’agosto con un infarto in ospedale. Bello però è poterlo raccontare. Anche se resta il sospetto che possa essere l’ultimo articolo di un narciso.

Tutto è andato come i medici mi avevano annunciato da anni. Mangiare ogni volta come se fosse l’ultima scorpacciata, a letto mai, diabete, ipertensione, obesità, precedenti in famiglia: il ritratto di un condannato a morte. Dunque quando ho sentito una mano afferrarmi dietro la spalla sinistra, e poi scendere fino alla mano, risalire e appoggiarsi sul petto, e premere, la maledetta, trasformarsi in un punteruolo, ho pensato: ci siamo. Ho resistito un po’ nelle lenzuola sudate, mi sono alzato, ho preso due aspirine ciclopiche, una pillola contro i reumatismi, però con un pezzo di formaggio perché non facesse male allo stomaco. Di nuovo nel talamo appiccicoso. Ho pensato a qualche riga di testamento su whatsapp. Vanda mi ha detto: “Andiamo in ospedale”. Io: “Figurati se è un infarto. È un torcicollo anomalo. Arrivo lì e mi diranno subito che sono un simulatore e mi dovrei vergognare”. Comunque si parte, mia moglie guida come Hamilton, riesce anche a parlare con dolcezza coi box, che sarei io.

L’ospedale della mia cittadina, Desio (Monza e Brianza), è stata una formidabile casamatta nella lotta al Covid, e il pronto soccorso è rimasto con l’abbigliamento da battaglia di quelle giornate. Mi ricorda il posto di confine tra l’Iraq e la Giordania durante la guerra del Golfo. Un tubo nero che sembra la gola di un drago con lucine rosse nelle fauci. Fuori un infermiere che fuma, due africani seduti sul marciapiede.

Mani sicuri

Attraverso la soglia, e subito mani sicure mi afferrano. Perfezione. Mi ritrovo sottoposto a cardiogramma, mi bucano il braccio, muoio dal freddo (l’infarto fa venire freddo). Come se osservassi dall’aldilà constato che il Covid è stato una scopa. È sparita la ressa del sabato notte che solo sei mesi fa rendeva queste strutture sanitarie simili ad avamposti di guerriglia sudamericana con peruviani ed equadoregni feriti e/o ubriachi, mescolati a bambini con il raffreddore. C’è un anziano su un lettino, una gigantesca nigeriana con una bellissima maglietta piena di lustrini.

I medici nello stanzino, a cui hanno passato il foglietto con il grafico dei miei battiti sbilenchi, sono giovanissimi, muovono la carta come se fosse la lista della spesa, davanti e dietro. Oddio, sono spacciato, in che mani. Il maschio mi porge un antidolorifico in polvere, dico, per stemperare il mio terrore, che sa di cioccolato. “No”, mi corregge severo, e capisco che pensa “questo vecchio rincoglionito…”. Benevolo aggiunge: “Sa di cappuccino”. Uno che corregge la gente che sta crepando sul sapore dell’intruglio sa di certo il fatto suo e mi tranquillizzo.

Arriva la cardiologa, la quale mi parla con serenità, mi spiega che cosa è capitato, un bell’infarto, e intanto convocano chi in quel momento e ancor oggi mi appare come un’arcangelessa. Lascio perdere i particolari tecnici. Attraverso un pertugio del mio braccio destro spedisce non so cosa dentro un’arteria e da lì nel muscolo cardiaco. Non va bene, ho arterie troppo contorte. Si passa all’altro braccio.

Mi parla, mi chiede di descrivere il dolore. È una bestia che mi attraversa con la lingua in fiamme il petto. Non resisto. Poi invece resisto. Dev’essere la certezza che o così o si muore. Quindi, nella distensione dopo questo trapanamento durato un’ora, racconta di essere di Gdynia, di aver operato allo stesso modo e alla stessa arteria Lech Walesa al San Raffaele. Mi ricordavo! Dieci anni fa! E lungi dal crepare sotto i ferri, rompe ancora le scatole in Polonia. Allora la sfagiolerò pure io. Dopo qualche giorno, sempre lei, la dottoressa Renata Rogalska, polacca, 42 anni, due gemellini nati da poco, rifarà la stessa cosa, ricostruendo altre due arterie scassate, scolpisce, contempla, vorrebbe dare un altro colpetto forse, ma si ferma: “Meglio che non sia perfetta, mai cedere all’estetismo”. Ma com’è strana la vicinanza alla morte. In questa occasione, giusto ieri, sento un fuoco nel petto, un’oppressione che non ce la faccio proprio. Penso: meglio morire, ma basta. Lei serafica: “Su, descriva il dolore”. Io dico: “La bestia è in mezzo al petto, mi stritola, ora è salita al mento, perché, sa, io non ho il collo”. Risate. Ma come, crepo, e questa ride, e ride pure l’infermiere. Ma sì, rido pure io. Patire l’inferno e ridere.

Dignità

Quanta umanità e che livello di professionalità ho sperimentato. Penso: piccolo ospedale, domenica d’agosto, che razza di splendore è la sanità lombarda. In unità coronarica eravamo in sei. Ci separano le tende. Uomini e donne. La privacy non può esistere comunque. Ma il pudore regge. Non è violato, perché la sofferenza crea un alone di dignità che se ne frega delle padelle e dei pappagalli. Che magnifiche persone gli infermieri e le infermiere, quanta pazienza. Ho capito quello che mi spiegò un giorno una loro collega: “Tu non stai toccando un corpo, ma un’anima”. È il segreto del pudore e del rispetto. Spero di averlo imparato. Anche se ciascuno di noi sei lì dentro, terapia intensiva, pensava: sono io quello che sta peggio e rischia di più? Ma certo trasferiscono al reparto “normale” tutti ma non me…

Poi eccomi anch’io in cardiologia. Stanza a due letti. Il mio collega di stanza è un signore di 48 anni. È il beniamino dell’ospedale. Ci vive, in pratica. Ha fatto – dice – dieci infarti. Ha perso ogni suo avere, non ha nessuno, anche la sua fidanzata vivace come lui “on the road”, dice con un certo gusto romantico. Il comune coi suoi servizi sociali non gli trova un alloggio, è invalido all’80 per cento. E così siccome non hanno 400 euro per un monolocale al mese, vorrebbero spedirlo in dormitorio a Milano: ma finir lì vuol dire essere derubati, perdere qualsiasi speranza. E così lo accolgono negli ospedali, come ricordo in certi film degli anni ‘50. Il costo per l’erario è infinitamente più alto, ma non è un falsario: dieci infarti, qualche acciacco si trova sempre. In reparto aiuta tutti, raccoglie le confidenze. E mi dice pure la sua. Ha il reddito di cittadinanza più una pensione di invalidità. Qual è il problema? – mi dice mettendomi in mano la tessera gialla che consente le elargizioni. Che i soldi del reddito di cittadinanza non riesce a spenderli. Infatti si possono usare solo per il mangiare, i vestiti, le scarpe. E la Caritas e le varie beneficienze forniscono cibo e vestiario. La cosa buona, dice sfoggiando un modello fantastico di iPhone, è che però si possono spendere in cellulare e telefono. Ma non è che se ne compra uno al mese… Per recuperare soldi, lui come tanti “on the road”, fanno la spesa al supermercato per due-trecento euro e poi rivendono a metà prezzo la merce.

Ferragosto con l’infarto poteva essere meno interessante di così.

Ringraziando di tutto Maria Assunta – nel crepuscolo di Caravaggio” (Renato Farina).

Aggiornamento

“Ancora vivo è? E che cazzo”: questo è il commento raffinato di 1runner @cvatelli_alsugo, un individuo nascondendosi nell’anonimato, che si presenta come: “Sono un runner antifascista socialista contadino per niente fancazzista ed antisardine. exlaureato in Storia alla UNIPI. lobbista alla UE e PM. i like fregna”. Insomma, uno di quei intollerante tolleranti, fascista antifascisti,Un insulto schifoso pieno di odio, che visto il pulpito da dove viene vomitato, vale come un’onorificenza.

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