La musica che non c’è. Turtle Island String Quartet e Wilson Pickett

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Un’originale quartetto d’archi californiano e la musica di Wilson Pickett sono i protagonisti del nuovo appuntamento con “La musica che non c’è” curato da Gianni Giletti, membro della Fraternità del Sermig di Torino che ospita anche il Laboratorio del Suono. Una rubrica che parla di musica, ma non della solita “sbobba” che troppo spesso subiamo dai mass-media; parliamo di musica vera, che trasmette emozioni, che tocca il cuore e che non è tanto conosciuta.

Meglio, tentiamo di trovare un disco – di ieri o di oggi – che ancora ci possa far sognare, spaziando un po’ su tutti i generi. Le caratteristiche che deve avere il “lettore tipo” sono la curiosità e la ricerca della qualità della musica…

TURTLE ISLAND STRING QUARTET, The Hamburg Concert – CCcn’C Record 1997. Volete della musica nuova? Che non sia impossibile da ascoltare – tipo “avanguardia accanita” – ma che, perbacco, non sia la solita minestra rock-pop-jazz-etno, un’idea semplice, ma convincente… insomma, qualcosa di bello e di nuovo! Benissimo, eccola qui: un quartetto d’archi! “Gianni, hai fumato peyote stamattina?” mi dice a questo punto sorridendo il redattore di questo sito. Immagino che la stessa domanda – sfumatura più, sfumatura meno – me la fareste anche voi che state leggendo. Ebbene, non ho fumato peyote e non sono andato fuori di testa, ho semplicemente ascoltato i Turtle Island String Quartet. Chi sono costoro? Un quartetto d’archi californiano – due violini, viola e violoncello – ma un po’ particolari. Intanto, il repertorio: jazz, rock, folk! Sì, avete letto bene, solo con gli archi, niente batteria/percussioni/basso… solo qualche microfono. La meraviglia che ti prende ascoltandoli è che loro sono a volte una rock band, a volte una jazz band, a volte fanno il blues, a volte la fusion o il tango… sono cioè totalmente versatili e la cosa che più ti impressiona è che non cercano di fare il solito compitino, ma spingono le possibilità espressive dei propri strumenti all’estremo limite. Grazie quindi ad arrangiamenti geniali, ad una tecnica stratosferica – anche se non molto ortodossa – e ad un senso del ritmo fuori dal comune, in questo disco ci sembrerà di ascoltare un brano di rhythm ‘n’ blues, con tanto di fiati (Who do you think you are), una struggente ballata brasiliana (Var on winter), una suite di Bach con un po’ di swing (Bach’s lunch), una romantica rivisitazione di Ruby my dear (Thelonious Monk)… il tutto solo e sempre con quattro archi! Insomma, non vi dico altro perchè non voglio togliervi del tutto la sorpresa ma garantisco il risultato: nuova musica o meglio, un modo nuovo di pensare e suonare musica. Ecco a voi una pillola…

WILSON PICKETT, Greatest hits – Atlantic 1987.
Una compilation? Orrore! Tranquilli, cari lettori (ma siamo sicuri che qualcuno mi legge?) il rubricista non è in sciopero, non ha versato il cervello all’ammasso, ma è sempre vigile e attento (si fa per dire) sulla scena musicale passata presente e futura. Il disco di quest’oggi parla della scena passata: Wilson Pickett è uno dei grandi della musica nera afroamericana… Insieme a gente come Otis Redding, Ray Charles, James Brown, Aretha Franklin (tanto per citare i più conosciuti) ha messo a punto quella musica che ha impazzato nei decenni ‘50 –‘70 e che continua (qualche volta verrebbe da dire purtroppo, visti gli attuali personaggi) anche oggi.

Che musica è e da dove arriva? La musica di cui parliamo ha un corpo solo, ma con tre teste: “funky, soul e rhythm’n blues” e nasce quando lo “swing” degli anni ’30 – ‘40 comincia a perdere colpi e prende corpo quel jazz molto più intellettuale e soprattutto non ballabile che si chiama “bibop”. Che fanno le migliaia di fans del ballo che per due decenni hanno ballato sulle note delle grandi big-band tipo Count Basie, Duke Ellington e Benny Goodman? Si cercano della musica che si possa ballare e trovano alcuni artisti che vanno loro dietro. Nasce così verso l’inizio degli anni ‘50 la musica di chi parliamo oggi, che prende alcuni elementi dello swing, ne velocizza il tempo, qualche volta lo rimarca particolarmente (funky) oppure usa la voce come strumento centrale (soul) e lo spara sulla scena afroamericana di allora. Il risultato è devastante: l’intera comunità nera americana incorona i nuovi re della musica e ne tributa il successo con le vendite milionarie dei loro dischi. Poi arriva Elvis, bianco e camionista… ma questa è un’altra storia. Oggi invece vogliamo goderci le canzoni di questo straordinario cantante. La compilation viene dall’Atlantic, mitica etichetta “nera” di quegli anni e contiene tutto il meglio di Pickett, ben 25 brani. Da citare una straordinaria cover di Hey Jude, un classico come “Mustang Sally” e il brano “Everybody needs somebody”, portato poi al successo planetario dal celebre film “The blues brothers”. E questa musica che fine ha fatto oggi? Ahi, ahi, ahi – come dice la famosa pubblicità “No Alpitour ?” – oggi abbiamo l’”arenbi”, che sarebbe una allitterazione dell’acronimo “R’n’b” , cioè “rhythm’n blues”, appunto. Peccato che si tratti di tutt’altro, musica sdolcinata, donnine seminude, video “teribbili”, talento musicale vicino allo zero ed anche quando un pochino di talento spunta (vedi Joss Stone, Craig David & co.) siamo lontani mille miglia dai vari Marvin Gaye, Luther Vandross e “compagnia cantanti”. Ne volete la prova? Ascoltate questo disco. Un assaggio…

Per contattare l’autore dell’articolo: giannig@sermig.org  

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