Dietro due sinfonie e un’orchestra, la ricomposizione del conflitto. In cerca del bello e del vero.

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Ludwing van Beethoven ha composto la Quinta e la Sesta sinfonia contemporaneamente. Era già sordo. Ma nessuno lo sapeva, perché questo avrebbe nuociuto alla sua attività di musicista. Così, passeggiava per i campi di Heligenstadt (la città santa), il sobborgo di Vienna dove si era ritirato a vivere, borbottando motivi che sentiva nella sua testa, senza parlare mai con gli abitanti del luogo. Solo al termine della sua vita, nel testamento di Heiligenstadt, spiegherà che la sua non era misantropia, ma semplicemente sordità. Una solitudine silenziosa che – sono le parole con cui Benedetto XVI ha commentato una esecuzione della Nona di Beethoven – “aveva insegnato a Beethoven un modo nuovo di ascolto che si spingeva ben oltre la semplice capacità di sperimentare nell’immaginazione il suono delle note che si leggono o si scrivono”. Due dei frutti – la Quinta e la Sesta sinfonia appunto – saranno eseguiti questa sera davanti a Benedetto XVI. E a farlo, sarà un’orchestra del tutto speciale, la West Eastern Divan Orchestra. Una orchestra che nasce dall’amicizia tra un musicista israeliano e un letterato palestinese. E che ha come luogo di nascita  la Germania. Gli incroci a volte non sono casuali.

Raccontano che Benedetto XVI ami suonare il suo pianoforte. In realtà, il musicista di famiglia è Georg, il fratello, per anni direttore dei Domspatzen, i passerotti del Duomo di Ratisbona, uno dei cori più importanti di Germania. Ma anche Joseph ama sedersi davanti al pianoforte e suonare. Gli autori preferiti: Mozart e Beethoven. Un uomo, quest’ultimo, di una profonda religiosità, seppure non fosse un credente in senso stretto del termine. Beethoven andava sempre ripetendosi dentro di sé – e in particolare mentre scriveva la Sesta sinfonia, che era anche il tempo in cui leggeva “La filosofia della natura” – le parole del filosofo Immanuel Kant: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. Una prospettiva che lo stesso Benedetto XVI, commentando la Nona Sinfonia, rovescerà, in quello che è un classico della sua teologia. Dio – disse il Papa – “ talvolta proprio in tempi di vuoto e di isolamento interiori – vuole renderci attenti alla sua muta presenza non solo «sopra la volta stellata», ma anche nel più intimo di noi stessi”.

È un percorso di riconoscimento musicale di sé, quello che fa Beethoven. Sordo, in un mondo ovattato, racconta quello che prova nella musica. Beethoven mette in scena la musica dell’altro, che è poi la musica di sé stesso. In qualche modo, si pone di fronte al mondo come di fronte a uno specchio. La Quinta e la Sesta sinfonia sono esempi perfetti di questo raccontare il mondo con suoni nascosti, e forse non è un caso che Beethoven le vada componendo contemporaneamente. La Quinta è la sinfonia, in cui la dialettica della forma sonata, la contrapposizione tra maschile e femminile, sono pienamente sviluppati; la Sesta racconta invece le sensazioni di una passeggiata in campagna, e Beethoven infatti le dà anche un titolo: la Pastorale. Tanto è dialettica allo stato puro la Quinta, tanto è pace la Sesta.

Eseguirla una dopo l’altra – la Sesta verrà eseguita prima della Quinta – significa anche in qualche modo trasporre in musica la narrativa della storia di due popoli. Da un conflitto può venire fuori la pace? E come raggiungerla? Si può cominciare, per esempio, da un’amicizia: quella tra Daniel Barenboim, israeliano, direttore d’orchestra e pianista di fama internazionale che già a 10 anni si esibiva al pianoforte ad altissimo livello, ed Edward Said, letterato palestinese, l’inventore del concetto di “orientalismo” che in qualche modo ha cambiato anche la prospettiva della narrativa della storia del Medioriente. Né l’uno né l’altro avevano l’intenzione di formare un’orchestra. Ma l’ispirazione arriva, e viene – per una ironia del destino – grazie ad una occasione proveniente dalla Germania.

“L’idea – ha raccontato Baremboim – è venuta indirettamente da un invito proveniente dal direttore artistico della capitale europea del 1999, che in quell’anno era Weimar. Voleva che organizzasi un qualche tipo di programma musicale. E io ho detto: bene, se devo fare qualcosa, deve essere rappresentativo di Weimar, che è in qualche modo lo specchio del meglio e del peggio della cultura tedesca. È la città di Goethe, un grande esploratore  della cultura dell’Est. Ma è anche la città del campo di concentramento di Buchenwald. E quindi, ho pensato, c’è un qualche modo in cui possiamo mettere insieme le due parti del conflitto Arabo-Israeliano, una sorta di complesso musicale da camera del tipo ‘l’Est incontra l’Ovest’, che possa aprire un dialogo che sia politico, culturale e allo stesso tempo musicale?”

È una idea semplice: si mettono insieme circa 80 musicisti, il 40 per cento da nazioni arabe, il 40 per cento da Israele, il 20 per cento dall’Europa (inizialmente musicisti dell’Est Europa, ora Spagna, da quando una fondazione andalusa si è fatta carico delle spese dell’orchestra e ha dato lo spazio per i ‘camps’ estivi). E il nome – West-Eastern Divan Orchestra – riprende il ciclo dei “diwan”, i poemi lirici di Goethe modellati su quelli del poeta persiano Hafiz – in fondo, un “ponte” tra oriente e occidente.

C’erano dei rischi, Edward Said era scettico. E – lo ammette lo stesso Barenboim – se non fosse stato per il coinvolgimento di Said “nessun musicista arabo si sarebbe sottoposto ad una audizione per una orchestra diretta da un israeliano, un’orchestra in cui ogni musicista Arabo avrebbe condiviso musica insieme a un Israeliano”. L’esordio è del 1999, e c’entra sempre Beethoven: oltre al concerto di violoncello di Schumann, l’orchestra esegue la Settima Sinfonia. Da allora, l’orchestra si esibisce in tutto il mondo, portando il suo messaggio di pace e dialogo. Anche in uno storico concerto nel 2005 a Ramallah, la “capitale” della Palestina, sebbene i palestinesi considerino di fatto al Quds, la Santa, ovvero Gerusalemme, come loro capitale.

È questa la storia che sottende al concerto di cui sarà omaggiato stasera il Papa a Castelgandolfo. Quella di Beethoven è forte uno degli ultimi esempi di musica dalla grande carica religiosa. Lo stesso musicista in una occasione confessa all’arciduca Rodolfo d’Asburgo che per lui non c’è niente di più sublime che l’avvicinarsi a Dio più che agli uomini ed estendere all’umanità intera i raggi della divinità.  Ma l’interpretazione cosmica della musica, in diverse varianti, resta viva fino all’inizio dell’evo moderno. Solo il XIX secolo se ne allontana, perché la metafisica gli sembra superata. Dopo – scrive Benedetto XVI in Lodate Dio con arte (Marcianum) –  “la musica si è divisa in due mondi che non hanno quasi più nulla a che fare l’uno con l’altro. Qui c’è da un lato la musica per la massa, che con l’etichetta pop vorrebbe presentarsi come ‘popolare’, come musica del popolo. Qui la musica è ormai divenuta solo una merce producibile industrialmente e misurabile secondo il valore di mercato. Dall’altro lato c’è una musica costruita razionalmente, artificiale, che risponde ai criteri tecnici più sofisticati e che a malapena riesce a superare la stretta cerchia elitaria”. È il dramma del pensiero debole. Ed è anche da questo dramma che viene la risposta di Benedetto XVI, radicata nella Parola, in una nuova centralità della verità.

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