La Chiesa in Mongolia fa vent’anni. E cresce nonostante le difficoltà

La cattedrale di San Pietro e Paolo, a Ulan Bator, Mongolia, ricorda una yurta, una abitazione mobile tipica di alcuni popoli nomadi dell’Asia. L’avrebbe dovuta consacrare Giovanni Paolo II, nel 2003, un anno dopo aver elevato la missio sui iuris della Mongolia a Prefettura Apostolica. Un sogno che il Papa polacco accarezzò a lungo, prima di gettare la spugna. Non solo per motivi di salute e di evidente affaticamento, ma anche con la volontà di non urtare la sensibilità politica dei russi, contrari ad una visita papale anche in Mongolia. In quella cattedrale che somiglia tanto ad una yurta, oggi mons. Savio Hon, segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, apre le celebrazioni per i venti anni della Chiesa in Mongolia, in una concelebrazione con e di mons. Lazzaro You Heung-sik, vescovo della diocesi coreana di Daejeon – cui appartengono alcune delle Congregazioni religiose che operano in Mongolia – e Wenceslao Selva Padilla, prefetto della Chiesa di Mongolia. Una Chiesa di piccole dimensioni, ma di grande vitalità. Nel 2008, ha avuto la sua prima vocazione, e due giovani mongoli sono ora in uno dei seminari più importanti della Corea del Sud, presso l’Università Cattolica di Daejeon. Da oggi, la Chiesa mongola ha una parrocchia in più – da quattro a cinque. Ed ha il merito di aver dato al Paese una struttura sociale di tutto rispetto.
I numeri raccontano che molto è stato fatto. La Chiesa di Mongolia ha creato in venti anni 2 Centri per bambini di strada, una casa per anziani, 2 asili Montessori, 2 scuole primarie, un centro per bambini portatori di handicap, una scuola tecnica, 3 biblioteche con sale di studio e strutture informatiche, un ostello per gli studenti universitari, dotato di moderne strutture, vari centri per attività giovanili. E sono anche in pieno funzionamento due 2 aziende agricole in aree rurali, con programmi che aiutano le comunità rurali, un ambulatorio e un clinica.
Non male per una Chiesa che era praticamente inesistente venti anni fa, quando Giovanni Paolo II vi creò la prima missio sui iuris. Era una Mongolia abbandonata e ferita. Negli anni trenta Stalin aveva fatto distruggere tutti i luoghi di culto e migliaia di monaci erano stati trucidati. La religiosissima Mongolia – per la quasi totalità di fede buddhista lamaista, con una piccola minoranza musulmana nell’enclave dei kazaki e le etnie siberiane ancora legate ai riti sciamanici – doveva diventare laica. Il governo filosovietico perseguitò anche l’altra «divinità» popolare, il condottiero Gengis Khan che tra il XII e il XIII secolo diede ai mongoli il dominio di mezzo pianeta (e in pochi lo sanno, ma una delle mogli di Gengis Khan era cristiana): vennero abbattuti tutti i monumenti dell’«imperialista» e sostituiti dalle statue di Lenin e dello stesso Stalin. Rimase in piedi solo il monastero di Ganda. Era una strategia: convogliando i religiosi, monaci e fedeli, nello stesso monastero sarebbe stato un gioco tenerli sotto controllo. Una sorta di ghetto della fede. La stessa operazione venne perpetrata nei confronti dei nomadi, che costituivano la quasi totalità della popolazione mongola durante la lunghissima dominazione cinese, conclusa nel 1921 con la rivoluzione sostenuta dai sovietici e la proclamazione, nel 1924, della Repubblica popolare della Mongolia.
Poi, alla caduta del regime comunista, i sovietici hanno abbandonato il Paese, hanno lasciato interi quartieri disabitati, dopo che gli avevano sì dato un tessuto economico efficiente – le industrie del rame sono lì a dimostrarlo – ma al prezzo di sventrarne l’identità costruendo interi quartieri di impostazione sovietica. La ricostruzione del Paese è ricominciata con una nuova Costituzione. Una Costituzione che riconosce formalmente il diritto alla libertà religiosa. Ma ogni gruppo di fedeli deve essere registrato, previa autorizzazione del consiglio comunale. Una registrazione che permette al governo di limitare il numero dei luoghi di culto e quello dei sacerdoti.
Questo ha creato non poche difficoltà ai missionari cristiani. Tanto che padre Kuafa Hervé, parroco della cattedrale dei Santi Pietro e Paolo a Ulan Baator, ha dichiarato negli scorsi mesi ad Aiuto alla Chiesa che Soffre: “Il clima non è amichevole come quello che si respirava alcuni anni fa’. Oggi in Mongolia l’annuncio della fede avviene solo all’interno delle chiese, i giovani fino a 16 anni non possono frequentare il catechismo senza il consenso scritto dei genitori e i sacerdoti non indossano l’abito talare in pubblico, perché non devono essere riconosciuti come esponenti del clero. La nostra è una Chiesa tormentata”.
Una Chiesa che però cresce, nonostante le difficoltà. Nonostante tutto, la Costituzione del 1992 ha permesso la costituzione della missio sui iuris, e l’allacciamento delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Nel 2006 i cattolici erano circa 600, compresi 350 nativi mongoli. Oggi i missionari sono 81 di 22 nazionalità diverse e di 13 istituiti religiosi o gruppi diversi. Dopo 20 anni di evangelizzazione, i fedeli cattolici battezzati sono oggi 835 e molti altri continuano la preparazione per il battesimo. È ancora lì Wenceslao Selva Padilla, il nunzio in Corea che fu mandato dal Papa a fondare la Chiesa di Mongolia. Il quale oggi parla di una comunità “piccola ma vivace, che ringrazia Dio per le grandi cose che ha fatto per lei”. Le celebrazioni culmineranno il 7 ottobre 2012, giorno in cui tutti i fedeli cattolici mongoli sono invitati a piantare un albero, in ricordo dei primi 20 anni di vita della Chiesa.