Quando il deserto parla: i raid Goum

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Deserto, sole, vento e pioggia. Ma nel cuore tanto calore e la frescura di un’anima che sa lasciare tutto per parlare con Dio. I cammini Goum sembrano solo dei pellegrinaggi a piedi, ma chi li ha provati sa che non è così. Lo ha sperimentato per primo Etienne Roze, Padre Stefano come lo chiamano i goumier. Classe 1958, francese, dal 1977 partecipa ai raid Goum in Francia, in Terra Santa e in Algeria. Poi l’ Italia e l’ Abbazia di Sant’ Antimo che gli fa da casa quando non è in giro per un raid. Un luogo che già sa di deserto, di abbandono a Dio. Una fortezza dello spirito dal 750, forse un dono di Carlo Magno, oggi rinata grazie a dei sacerdoti francesi che seguono la spiritualità agostiniana. Una  comunità monastica aperta a mille attività, dai gruppi scout alla liturgia. E poi i Goum di Padre Stefano. “Il termine goum – dice – ha  lontanissime  origine semitiche. La sua  origine significa “levarsi”, ma  anche  “risorgere”, come colui che, morto, si alza “per rimanere in piedi”. Ma anche “salire”, “mettersi in  cammino” e  “partire”. Il vangelo utilizza la parola kum. È Gesù stesso che la  pronuncia quando  ordina  alla  giovinetta  morta  di alzarsi:  “Talita  kum”,  che significa, appunto, “bambina,  alzati!”. Ecco, partiamo da qui.

I goumier sono un gruppo di persone, non superiamo mai le  23  unità, con almeno  22/24  anni di età, che scelgono di mettersi in  cammino per  una settimana. 150 chilometri da fare nel silenzio, nella preghiera, nella libertà”. La scoperta del silenzio Silenzio e libertà. Sembrano due parole magiche da proporre ad un’umanità oppressa dal frastuono e dall’obbligo di essere altro da se stessi. Le mete, quelle fisiche, sono italiane, francesi, spagnole, e poi ovviamente ci sono i deserti del Medio Oriente, quelli dei Padri della Chiesa, quelli degli stiliti e dei monaci. Poi ci sono le mete dell’anima. Quelle le raccontano i goumier nella rivista “ Croce del Sud” versione italiana de “A la belle étoile.” “Nel Goum dichiariamo Gesù il nostro punto cardinale- scrive Maria Gioia- colui la cui parola e i cui gesti sono le parole e i gesti con i quali ci confrontiamo per scegliere il nostro cammino nella vita. Anche di questo aumenta la consapevolezza nella settimana del raid, al punto che spesso la si porta con sé una volta tornati a casa.”

L’esperienza è radicale e faticosa. Notti all’addiaccio, poco cibo, nessuna comodità, tanta preghiera. La messa celebrata ogni mattino nella polvere illumina e ristora. Ognuno porta la Bibbia e un quaderno, un documento e il suo zaino. Nient’altro. La fatica è la chiave dell’esperienza. La prima scelta da fare è proprio decidere di partire. C’è chi lo fa con entusiasmo pensando ad una sfida. “Sono sempre stata una sportiva- scrive Chiara- una di quelle che non ha paura a buttarsi tra i rivoli di un fiume o a lanciarsi nel vuoto, e a tutte le mille mie peripezie non avevo mai dato un senso, e in fondo il Goum lo pensavo come l’ennesima sfida: tanto cammino, poco cibo. Niente di impossibile, e così è stato. Ma il Goum non è questo.” C’è una domanda che si ripete, che si pone a se stessi e a Dio. Continua Chiara: “Il cuore, tuffato nell’amore pieno impazzisce, e chiedi, continui a chiedere: cosa vuoi? Non ti basta che io sia qui? No, non Gli bastava. Voleva che lì, io ci fossi, che stessi sul pezzo! Un abbraccio consolatore, io bambina con le lacrime agli occhi: che pensavi? Cambiare. Voleva che, spogliata di tutto, Lo ritrovassi attraverso gli altri. E lì voli veramente: torni a casa cantando e speri che tutto questo non sia stato vano. E solo poi, col passare dei giorni, dei mesi, ti accorgi che quel cammino non è mai finito: mille volte cadrai e inciamperai, ma l’amore di Dio, se l’hai lasciato entrare, non esce più.”

Essere tribù Le immagini dei goumier nel sole o nel freddo sono più delle parole. Una ventina di uomini e donne che sembrano uguali, con la camicia a righe di tele grezza, la djellaba, con il cappuccio che ripara dal sole, dal freddo e che crea una spazio personale nell’immensità del nulla… Scrive Enio: “Il Goum più semplicemente mi faceva, e fa, arrivare al pettine una serie di nodi da districare. Questa specie di “revisione” nel corpo e nello spirito mi fa intravedere come potrebbe essere il Paradiso dopo la morte; nel Goum si è completamente staccati da tutto, più nessun peso ci trascina a terra. Sembra, dopo alcuni giorni, di vivere stranamente in un sogno. Ci sentiamo in un altro mondo, non è come nella realtà. Nel Goum siamo trasportati in un quotidiano che bene, bene non si riesce a definire, ma sotto, sotto la sensazione è euforica. Ma come il Paradiso? Il Paradiso è ciò che tutti noi speriamo di incontrare dopo la nostra morte corporale! La nostra morte corporale arriva dopo un’esistenza, dopo un cammino; una storia già presente prima, e che continua dopo. Che cosa sarà del nostro transito terrestre? Che cosa sarà di noi, da dove arriviamo, dove siamo diretti; e ancora, cosa lasceremo? A queste domande mi sembra che molti abbiano le risposte “relative” in tasca.”

Invece la risposta si trova camminando nel deserto. Una esperienza da rifare Le proposte dei raid del 2012 sono tutte nel sito che da qualche anno racconta l’esperienza Goum in Italia e offre informazioni pratiche, libri di spiritualità e racconti. Ma soprattutto si trova il calendario dei prossimi raid e la possibilità di iscriversi per essere un goumier. Ma la vera base operativa dei raid Goum rimane l’abbazia di Sant’Antimo dove Padre Stefano torna e da dove diffonde l’energia del suo pellegrinare anche nelle parrocchie della zona con incontri, conferenze e preghiera e naturalmente i raid. “I Goum – spiega il sito dell’Abbazia- non costituiscono un vasto movimento con presidenti e assemblee, ma sono un’esperienza che parte dalla libertà di ciascuno per aprirsi in un dono generoso. Si viene una, due volte… o dieci. Dopodiché ciascuno torna a casa propria con i benefici che ha colto, con la piena libertà per scegliersi il modo come usarli.”

 

L’articolo integrale è pubblicato su ROGATE ERGO del 6-7 2012

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