Le conseguenze del “male dell’anima” che è la “durezza del cuore”. Partendo da Attila… e Tamerlano

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Il nome di Attila nella storia occidentale e nella tradizione è diventato sinonimo di crudeltà e barbarie – flagellum Dei” (flagello di Dio) – per la sua ferocia. Si diceva che dove fosse passato non sarebbe più cresciuta l’erba. A questa reputazione potrebbe aver contribuito il fatto, che la sua figura sia stata nel tempo assimilata a quella di altri condottieri della steppa, mongoli come Temucin o Cinghiz Khan(“il conquistatore”) e il suo successore Tamerlano (“terrore del mondo”), noti come signori della guerra abili in combattimento, crudeli e sanguinari, e dediti al saccheggio.

La storiografia ci racconto che mentre gli Unni si stavano preparando all’assalto della Città di Troyes, il Vescovo Lupo dopo preghiere e digiuni, uscì per affrontare Attila in prima persona. “Chi sei?”, chiese Lupo senza timore. La replica di Attila aveva l’aspetto di una citazione erudita dalla Bibbia: “Io sono Attila, flagello di Dio!”. La risposta del vescovo penitente era colma della vergogna che provava sentendosi incapace di tener lontani i suoi concittadini dal peccato: “Io sono Lupo, ahimè! Il devastatore del gregge di Dio, colui che merita di essere colpito dal flagello del Signore!”. L’umiltà di Lupo fu sufficiente a salvare la città. Le porte della città furono aperte per far entrar gli unni, che “per divino volere divennero ciechi così che, senza nemmeno accorgersene e senza far male ad alcuno, attraversano la città da una parte all’altra”.

In questa drammatica storia di incrollabile santità, Attila è assimilato all’interno di un mondo interamente cristiano. Egli è, come si vanta con Lupo, flagellum dei, l’espressione associata più di frequente ad Attila nella letteratura medievale e rinascimentale. Per molti cristiani, non solo per i contemporanei, ma anche per i credenti in epoca successiva, l’invasione degli unni era stata ordinata da Dio come punizione per le città peccatrici della Francia centrale. Il filosofo e teologo spagnolo del VII secolo Isidoro di Siviglia sosteneva che le incursioni di Attila erano parte di un disegno divino per punire la cristianità. Gli Unni era virga furoris dei, la verga del furore divino, mandati per castigare gli impenitenti e “costringerli ad abbandonare i desideri e gli errori dell’epoca”. Molto tempo prima, il profeta Isaia aveva minacciato i peccatori israeliti della furia del Signore: “Quando passerà il flagello del distruttori, voi sarete la massa da lui calpestata”.

Prepariamoci, fisicamente, psicologicamente e spiritualmente, anche alle conseguenze collaterali di questa pandemia. Il “flagello di Dio” non arriva mai in un’unica soluzione, perché l’uomo ha il “cuore duro”. Delle conseguenze parla lo storico, Professor Roberto de Mattei su Corrispondenza Romana di oggi, partendo da Tamerlamo.

Per l’uomo moderno il “male dell’anima”, che San Bernardo di Clairvaux definisce “durezza di cuore”, è “essere molto occupati”, “essere troppo presi dal lavoro”. L’uomo moderno lo considera per niente un “male dell’anima” (neanche se crede ancora che l’uomo è corpo e anima, che Gesù Signore nell’ultimo giorno risusciterà nella carne quanti avranno creduto in Lui). Al contrario, l’uomo moderno ne è orgoglioso, considerandosi molto bravo ad occuparsi di così tante cose, di agire come se la giornata non avesse ventiquattro ore, ma quarantotto, o di più ancora. E pensare e fare Dio…

La “durezza di cuore” è il “male dell’anima”, che non ha timor di Dio, né rispetto per l’uomo, né per se stesso, né per i suoi consimili.

Anche se scritto nel XII secolo, c’è una pagina di San Bernardo di Clairvaux, che va riletto, perché fa riflettere sulla nostra condizione, oggi:
“[È cosa terribile] lasciarsi trascinare e condurre (dalle troppe occupazioni), un passo dopo l’altro, là dove tu non vuoi. Mi domandi dove? Ti rispondo: alla durezza di cuore. […] Chi ha un cuore duro non ha orrore di se stesso, perché ha perso ogni sensibilità. […] Nessun uomo indurito nel cuore ha mai raggiunto la salvezza, a meno che Iddio misericordioso, come dice il profeta, non gli abbia strappato il cuore di pietra e gli abbia dato un cuore di carne. Che cos’è dunque un cuore di pietra? È quello che non s’incrina per la compunzione, non s’addolcisce nella pietà, non si commuove alla preghiera; questo cuore non si piega alle minacce e s’irrigidisce sotto la sferza. Non serba riconoscenza per i benefici, è recalcitrante ai consigli, è spietato nei giudizi, è sfacciato nelle turpitudini, è spavaldo nei pericoli, è insensibile con gli uomini e temerario con Dio; dimentica il passato, trascura il presente, non provvede al futuro: del passato ricorda solo le ingiurie, del presente non gli interessa nulla, e del futuro gli preme solo la prospettiva o la preparazione di qualche vendetta. E per riassumere in poche parole tutti i danni di questo orribile male, dirò che un cuore duro non teme Dio né rispetta l’uomo. Ecco dove ti possono trascinare queste maledette occupazioni, se continui a perderti in esse […] nulla lasciando di te a te stesso”.

La “durezza del cuore” porta a procedere per la propria strada, senza rendersi conto di quanto questo modo di fare danneggi irrimediabilmente la qualità dei rapporti con gli altri, di quanto offuschi la bellezza del mondo e di quanto intorbidi la consapevolezza del proprio essere. Per non essere afflitti dalla “durezza del cuore”, occorre dialogo con la propria anima, occorre attenzione per il prossimo (non con buone intenzioni, ma con atti e comportamenti concreti, cioè occorre amare e farsi amare), occorre – per chi ha il dono della Fede, per chi sa credere – un stare davanti, guardare e farsi guardare da Colui che è – l’Essere che ci ha creato e verso il quale siamo diretti, per l’Eternità – spogliandosi dell’orgoglio e abbandonandosi nelle mani di Colui che è il Signore di tutto il creato e della nostra vita, dello spazio e del tempo, di tutte le dimensioni che vanno oltre quello che l’uomo imperfetto e mortale potrebbe mai iniziare afferrare.

Tamerlano è alle porte?
di Roberto de Mattei
Corrispondenza Romana, 18 marzo 2020
La figura più terribile del terribile XIV secolo fu forse Tamerlano, un feroce e implacabile conquistatore, chiamato “Terrore del mondo”, che devastò l’Asia dalla Siria e dalla Turchia, fino ai confini della Cina, da Mosca a Delhi. Proveniva da una tribù turco-mongola dell’Uzbekistan e si proclamò erede e continuatore di Gengis Khan. È sepolto a Samarcanda, capitale del suo impero, sulla Via della Seta, l’antica via commerciale che collegava la Cina al Mediterraneo.
Racconta lo storico Paolo Giovio nei suoi Elogia virorum bellica virtute illustrium (Petri Pernae Typhographi, 1575, pp. 105-106) che Tamerlano, dopo aver posto l’assedio ad una città, faceva spiegare nei primi giorni una bandiera bianca, come segno di perdono se tutti si fossero volontariamente arresi. Altrimenti, nei giorni successivi, il suo esercito avrebbe fatto sventolare bandiere rosse, come segno di morte, non per tutti gli abitanti della città, ma per i comandanti e i soldati. Se poi la città si fosse ostinata nel rifiutare la resa, Tamerlano dava ordine di spiegare la bandiera nera, come segno di sterminio totale, senza distinzione tra colpevoli e innocenti, mettendo a ferro e fuoco la città intera.
L’epidemia del coronavirus che in poche settimane si è scatenata sul mondo ricorda la bandiera bianca di Tamerlano. Sembra il primo avviso di un terribile castigo che incombe sull’umanità, ma che ancora si potrebbe evitare. Gli esperti studiano i numeri e fanno le ipotesi più diverse. La curva epidemica può calare o aumentare. Il virus, dopo l’estate si presenterà in forma più mitigata, secondo alcuni, o in forma più violenta, come accadde per la “Spagnola”, secondo altri. Nessuno è in grado di prevederlo. Ma già si delinea lo scenario successivo. L’economia mondiale tracolla, mentre, come scrive su la Repubblica del 17 marzo Massimo Giannini, «l’Europa dei Lumi e dei Padri fondatori di Ventotene, giusta, libera e solidale, sconfitta da un nemico invisibile e inafferrabile». «Siamo in guerra», ha ripetuto per ben sei volte il presidente francese Emmanuel Macron, chiamando a raccolta contro «un nemico invisibile e inafferrabile» che ci aggredisce (Le Monde, 16 marzo 2020).
La débacle dell’economia mondiale è ammessa con preoccupazione da tutti gli osservatori. Secondo Federico Fubini, «gli smottamenti profondi dei mercati dicono che Covid-19 sta portando con sé una recessione globale» (Corriere della Sera, 17 marzo), mentre Federico Rampini scrive su la Repubblica dello stesso giorno: «La banca centrale più potente del mondo è impotente. Le mosse disperate della Federal Reserve per arginare il panico sui mercati sono andate a vuoto. L’economia globale sta franando. È in arrivo una recessione violenta».

Foto di copertina: Cristofano dell’Altissimo, Tamerlano, ante 1568, Uffizi, Firenze.

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