Il centenario di Pascoli, poeta verso l’Alto
Cento anni fa moriva Giovanni Pascoli. Esattamente il 6 aprile 1912, che quest’anno coincideva con il Venerdì Santo. Questa circostanza ci ha fatto pensare alla sua grande poesia letta in chiave religiosa. Non possiamo definire Pascoli un poeta credente, ma forse religioso sì, nel senso di un uomo – e poeta – alla ricerca di un senso Altro della vita, conscio, profondamente conscio del Mistero sotteso alla vita di ciascuna e alla Storia in toto. Molte sue composizioni poetiche diventano un percorso tra le mille immagini e simboli del mistero, del dolore, della ricerca. Una delle poesie più note, quella famosa “X agosto”, che rievoca l’evento-trauma della vita del poeta – l’uccisione, appunto il dieci agosto 1867, del padre Ruggero, amministratore di una vasta tenuta dei principi Torlonia – evoca con forza l’immagine dell’Infinito che si china sul finito e lo innerva della sua forza misteriosa: . E’ una ennesima immagine su cui Pascoli continua a domandarsi, a cercare.
Questa chiave di lettura è usata da don Luigi Giussani proprio quando parla di Pascoli, nella raccolta di saggi “Le mie letture” (Rizzoli, 1986). Dove spiega che . La conoscenza che, nel “Libro”, diventa appunto il continuo desiderio di avvicinarsi e di sfogliare . E nella “Grande aspirazione” il poeta descrive con chiarezza quel che , preme, spinge quasi. In realtà gran parte dell’espressione poetica pasco liana è attraversata proprio da questa tensione verso l’Altro e diventa testimonianza dell’irruzione dell’eterno nella propria esistenza, anche e soprattutto attraverso il dolore. Dolore che il poeta sperimenta fin dai primi anni di vita, a cominciare dai numerosi lutti familiari, e poi la grande lotta per la sopravvivenza, sia economica che sociale, la passione e la conseguente disillusione verso gli ideali socialisti, l’impossibilità di vivere fino in fondo una realizzata vita affettiva.
Nella poesia “I due orfani”, sottolinea don Giussani, si trova . Qui infatti si racconta il dramma di due fratelli rimasti senza padre e madre, che tremano di paura in una notte tempestosa e non trovano altro rimedio, a questo assedio di tenebre e assenza, se non quello di stare insieme e “essere buoni”. Esiste poi una poesia, non molto conosciuta, ma proprio dedicata a Gesù, mentre si avvia a vivere la Passione e deve abbracciare la croce, un destino doloroso che però non respinge fino all’ultimo spasimo, e umanamente rivolge uno sguardo carico di nostalgia alla terra, al Giordano, ai bimbi che si gli affollano intorno, come sempre.
Tra questi bambini ce n’è uno che è figlio di un ladro, che – gli sussurra Giuda – finirà crocifisso tra poco. No, risponde Gesù, non sarà così, e si prende il bimbo sulle ginocchia. Non c’è qui tratteggiato il Mistero salvifico della Passione, Morte e Risurrezione – Gesù viene chiamato Profeta, non Figlio di Dio – ma c’è una dolente, bellissima immagine di un Cristo obbediente e sottomesso al Mistero, come agnello condotto al martirio.
E Gesù rivedeva, oltre il Giordano,
campagne sotto il mietitor rimorte,
il suo giorno non molto era lontano.
E stettero le donne in sulle porte
delle case, dicendo: Ave, Profeta!
Egli pensava al giorno di sua morte.
Egli si assise, all’ombra d’una mèta
di grano, e disse: Se non è chi celi
sotterra il seme, non sarà chi mieta.
Egli parlava di granai ne’ Cieli:
e voi, fanciulli, intorno lui correste
con nelle teste brune aridi steli.
Egli stringeva al seno quelle teste
brune; e Cefa parlò: Se costì siedi,
temo per l’inconsutile tua veste;
Egli abbracciava i suoi piccoli eredi:
-Il figlio – Giuda bisbigliò veloce-
d’un ladro, o Rabbi, t’è costì tra ‘piedi:
Barabba ha nome il padre suo, che in croce
morirà.- Ma il Profeta, alzando gli occhi
-No-, mormorò con l’ombra nella voce,
e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi.