Il Servo di Dio Luigi Rocchi: la croce fece ribrezzo anche a Gesù
“Tante volte mi sono chiesto il perché di tanto soffrire, di tanto dolore. Ma Gesù stesso non ha voluto chiarire questo mistero. Egli non è venuto per toglierci la sofferenza, né per spiegarla. Ci ha insegnato il modo per farne veicolo e causa di salvezza… La sofferenza in sé non ha valore, ed è abominevole, schifosa, credimi: io ne so qualcosa, io che la vivo tutti i giorni e ogni giorno aumenta e diventa più gravosa. Ma il valore sta nel sopportarla per amore degli altri. La sofferenza, la croce fece ribrezzo pure a Gesù: ‘Padre, se è possibile, allontana da me questo calice…’. Gli faceva ribrezzo, ma Lui l’accettò, l’affrontò per amore degli altri: ‘Il vero amico è quello che dà la vita per l’amico’. Gesù ci ha insegnato ad essere più forti della sofferenza, ci ha insegnato a pagare quel prezzo per amore, per il riscatto totale dell’uomo”. Parole che, davanti al dolore, non sono digeribili, ma richiamano al mistero del Crocifisso, uomo dei dolori, con la prospettiva della Salvezza: “La porta del Paradiso è stretta e io sono grosso. Allora, il buon Dio, che non vuole lasciarmi fuori, mi ‘smonta’ di qua per rimontarmi di là. Ed io sono contento che sia così! Non mi importa delle cisti, degli ascessi e delle fistole che mi tormentano. Importa avere un piccolo posto in Paradiso, magari dietro la porta: basta starci dentro, no?”.
Chi scrive in questo modo è Luigi Rocchi, nato il 19 febbraio 1932 a Roma, dove la sua famiglia si è trasferita da Tolentino (MC) in cerca di lavoro. Tornato poco dopo a Tolentino scopre di essere affetto dal morbo di Duchenne, una forma di distrofia muscolare; fin dall’adolescenza intuisce l’andamento della sua vita. Inizialmente è assalito dalla disperazione ma, grazie ad un evento straordinario e alla fede intensa donatagli da Dio e inculcatagli dalla mamma Maria, si trasforma progressivamente in consolatore di quanti soffrono nel fisico o nel morale. Intrattiene una fitta corrispondenza, interamente recuperata grazie ai destinatari che l’hanno conservata con cura colpiti dalla profondità delle riflessioni.
Un giorno, nel 1971, avendo sentito, in un servizio televisivo, parlare del morbo di Duchenne, scrisse alla signora Gabriella Bentivoglio, che aveva conosciuto già nel 1963 e che da allora gli era divenuta amica, per chiederle se poteva fornirgli dati più precisi sul servizio, per il fatto che si trattava della sua malattia. La signora, essendo associata a Radié Resch, trasmise la lettera ad Ettore Masina, fondatore della stessa Rete e giornalista di RAI 2, il quale, sensibile ai problemi dell’emarginazione, si mise in contatto diretto con Luigi, fornendogli i dati richiesti e invitandolo ad entrare nell’organizzazione della Rete. Questo fu davvero un evento provvidenziale, perché da allora si sono notevolmente allargati gli orizzonti di Rocchi: infatti Masina, che scriveva anche sul ‘Messaggero di S. Antonio’, negli anni 1973/74, propose a padre Elia Bruson, direttore di tale periodico, di affidare a Luigi la rubrica dei malati, in quanto la parola di uno che aveva esperienza della malattia poteva essere più convincente e meglio accettata dai lettori dell’Unione Antoniana Mondiale dei Malati; ; interviene nei dibattiti sulla radio locale e una volta anche su RaiDue in occasione di una trasmissione sul Concilio Vaticano II°.
Anche il card. Ersilio Tonini, allora vescovo della diocesi di Macerata, Tolentino, Recanati, Cingoli e Treia, andava a trovare Luigi con una certa frequenza, quando era Vescovo di Macerata e Tolentino dal 1969 al 1975; lo stesso faceva mons. Loris Francesco Capovilla, dal 1972 al 1979, quando era prelato di Loreto; egli stesso ebbe a chiamare Luigi ‘il mio maestro’. L’ultimo decennio della vita di Luigi Rocchi è stato un periodo in cui egli ha raggiunto non solo una grande maturità umana e spirituale, ma nel quale la sua anima viveva in una profonda comunione con il suo Signore, in continua preghiera e offerta di sé nella fede pura, la ferma speranza e l’ardente carità, virtù riconosciute ormai anche dai suoi contemporanei, che lo considerano, più che un amico, un punto di riferimento e una guida spirituale, cui rivolgersi per chiedere consigli e preghiere.
L’agonia vera e propria è durata alcuni giorni, mentre avanzava in uno stato soporoso di semicoma. Dopo un leggero miglioramento, il 24 marzo 1979 era in stato terminale ‘per oliguria ed edemi diffusi’. Gli ultimi tre giorni non reagiva più e verso le ore 22 del 26 marzo 1979 si è spento con una ‘fibrillazione, altrimenti definita arresto cardiocircolatorio’. Dopo la morte, dal momento che si allarga sempre più la fama della sua santità, il 17 ottobre 1992, è aperta dal vescovo mons. Tarcisio Carboni la fase diocesana del processo di beatificazione, terminata ufficialmente il 22 aprile 1995. Nel 2003 la Congregazione per le cause dei Santi, dopo aver studiato le tremila pagine consegnate dal tribunale religioso della diocesi di Macerata, ha autorizzato la stampa della ‘Positio’ per la valutazione dell’eroicità delle virtù cristiane nella vita del Servo di Dio.
Il 9 febbraio 2012 il vescovo mons. Claudio Giuliodori, accompagnato da don Rino Ramaccioni, è stato convocato in Vaticano dal card. Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, per ascoltare le ragioni per le quali si richiede lo studio della causa di beatificazione di Luigi Rocchi. Il Card. Amato ha valutato positivamente la stima e la fama di santità che circondano la figura del Servo di Dio, così come gli sono state presentate da mons. Giuliodori. Il porporato ha quindi garantito l’assegnazione dello studio della causa di beatificazione di Luigi Rocchi ai teologi e successivamente ai cardinali; ha assicurato infine che darà disposizione di fissare per il 2013 l’emanazione del decreto che dichiarerà ‘venerabile’ Luigino Rocchi.
In un incontro svoltosi a Tolentino la postulatrice avv. Silvia Monica Correale (segue anche la causa di canonizzazione del cardinale vietnamita Francois-Xavier Nguyen Van Thuan, che fu per anni presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace), autrice insieme a Mara Rosaria del Genio e Maria Grazia Tibaldi del libro ‘A scuola di santità’, ha affermato: “Pregava e diceva che bisognava pregare per chiedere l’aiuto di Dio, anche nei momenti più difficili. Pregare il Signore per avere la forza di andare avanti. Riconosceva il dolore come un maestro e la Volontà di Dio fatta di puro amore e rivolta al nostro bene e l’accettazione della sofferenza era già in lui preghiera. Egli era un uomo di intensa preghiera: passava notti di solitudine che solo con gli anni è riuscito a riempire di preghiera fino a riconoscere di essere visitato dalla gioia persino in quei momenti.
Il suo mettersi nelle mani di Dio è stato il risultato di un cammino duro, ma infine gioioso… La fede nella Resurrezione era il fondamento della sua speranza, che si esternava nell’invito fatto agli altri di sperare nella grazia e nel futuro di Dio. Parlava spesso della misericordia di Dio, dava sempre la sensazione di avere fiducia piena in Dio. Considerava la sua infermità un servizio, una vocazione da svolgere nell’ambito della Chiesa e del mondo”.