L’acqua non sia una merce, ma un diritto di tutti
L’acqua non sia una merce. Sia un diritto per tutti, e venga inserito negli obiettivi del millennio. Sia sottoposto ad una governance globale orientata verso il bene comune. Il Pontificio Consiglio Giustizia e Pace pubblica le sue riflessioni sull’ “Acqua, bene essenziale alla vita” mentre partecipa, a Marsiglia, al Sesto Forum Mondiale sull’acqua. Lo slogan del Forum è Time for solutions, e non potrebbe essere più adeguato secondo il dicastero vaticano, che sente la necessità – dopo gli incontri di Kyoto (2003), Messico (2006) e Instanbul (2009) – di vedere finalmente prese decisioni concrete. Anche perché l’acqua ha un ruolo fondamentale nello sviluppo dei popoli. E, scrive Giustizia e Pace, “dopo l’inizio di una violenta crisi economica, anche collegata allo sfruttamento delle risorse naturali e allo scollamento fra finanza ed economia reale, fra profitto e sostenibilità, è giunto il momento di fare un bilancio dell’attuale situazione per impostare urgentemente soluzioni efficaci per le problematiche rimaste aperte, in vista della Conferenza di Rio+20 che si terrà a giugno di quest’anno e di ulteriori e necessarie riflessioni sull’acqua considerate in relazione allo sviluppo integrale dei popoli”.
Come tutti i documenti che hanno un peso diplomatico, forse è più importante il sottinteso che quello che è detto esplicitamente. Anche se il testo è chiarissimo. E racconta tutta la preoccupazione della Santa Sede perché l’acqua non venga considerata “bene mercantile”, e perché il suo consumo venga realizzato secondo la destinazione universali dei beni. E, perché questo accada, la Santa Sede chiede che si tuteli il diritto all’acqua “con un apposito inquadramento giuridico e con adeguate istituzioni che permettano di definire chiaramente le responsabilità, di stabilire in quali circostanze il diritto non è garantito e che consentano di denunciare e chiedere riparazione in caso di mancato rispetto”.
Due sono le conseguenze, una esplicitata nel documento e una implicita. Quella esplicitata è la formazione di Corti di Giustizia “abilitate alla ricezione di reclami da parte di coloro il cui diritto all’acqua non è garantito”. Quella implicita, ma ugualmente viva e presente, riguarda il lavoro diplomatico perché il diritto all’acqua venga rimpolpato. Fino ad ora, il diritto all’acqua è rivendicato principalmente per ciò che riguarda la disponibilità di ciascun essere umano di accedere all’acqua potabile.. Ma ogni individuo necessita di acqua per avere condizioni di vita dignitosa: per l’igiene personale, per l’agricoltura, per la preparazione del cibo, per la sicurezza alimentare. E sono tutti aspetti che andrebbero inclusi nel diritto all’acqua. Anche perché – dicono alcuni osservatori internazionali – un mancato riconoscimento dell’ampliamento di questo diritto finirebbe per penalizzare zone più povere, i cui problemi non verrebbero risolti se si fornisce loro solo l’acqua da bere.
C’è molto da discutere, insomma, in questo World Water Forum. Le riflessioni della Santa Sede sul tema partono proprio da un dato di fatto: la sottostima del numero del popolo che ha sete. Le statistiche internazionali – anche quelle Onu – parlano di 800-900 milioni di persone. Ma – si legge nel contributo – “adottando una definizione larga di accesso all’acqua -un accesso regolare e costante ad acqua potabile che sia accessibile economicamente, legalmente e di fatto, e che sia accettabile dal punto di vista della fruibilità-, la realtà descritta da alcuni studi è ancor più preoccupante: 1,9 miliardo di persone avrebbero a loro disposizione solo acqua insalubre, mentre 3,4 miliardi di persone utilizzerebbero saltuariamente acqua di qualità insicura. Secondo queste ultime statistiche, l’accesso all’acqua potabile non verrebbe, in definitiva, garantito a circa la metà della popolazione mondiale”. E “la maggior parte delle persone prive di un regolare accesso all’acqua potabile -84% stando all’Organizzazione Mondiale della Salute-, vive in zone rurali, ovvero in zone in cui le possibilità di fornire acqua potabile sono limitate. In esse, vari fattori -come la lontananza di alcune comunità e il costo delle infrastrutture-, rendono improbabile un rapido e netto miglioramento della situazione”.
Si parte dal principio che l’acqua è un bene universale. Eppure – si legge nel contributo – “sul piano della prassi, permane talvolta una concezione eccessivamente mercantile dell’acqua che rischia di cadere nell’errore di considerarla come una qualsiasi mercanzia, pianificando gli investimenti secondo il criterio del profitto per il profitto, senza tener conto della valenza pubblica dell’acqua”. Ma – denuncia la Santa Sede – “una visione e un comportamento eccessivamente mercantili possono portare a programmare investimenti per infrastrutture solo in zone dove appare redditizio realizzarle,ossia dove appare proficuo, là dove abitano numerose persone”, a tutto svantaggio del Sud del mondo. Di più: “un tale approccio mercantilistico induce a creare in alcuni casi una dipendenza non necessaria (da reti, da procedure, da burocrazie, da brevetti) e predispone a fornire l’acqua solo a chi è in grado di pagarla”. E poi, un altro limite dell’approccio mercantile della gestione dell’acqua (e di altre risorse naturali) “è quello di curare e salvaguardare l’ambiente assumendosi le proprie responsabilità solo se e quando ciò è economicamente conveniente”.
Che fare? Il diritto all’acqua andrebbe inserito nell’ampio insieme degli obiettivi di sviluppo del millennio. È un cenno forse marginale nel contributo, ma che ha una sua dirompenza diplomatica. Il diritto all’acqua riconosciuto a livello globale andrebbe a fermare le speculazioni di alcuni popoli disposti ad aiutarne altri con la clausola che gli aiuti vengono erogati a condizione che i paesi bisognosi d’aiuto riducano la crescita demografica; e la Banca Mondiale non potrebbe più offrire aiuti vincolando il prestito al fatto che i Paesi che lo ricevono accettino di liberalizzare i servizi dell’acqua.
Anche perché poi, di fatto, il mercato privato dell’acqua potabile è dominato nel mondo da tre società europee: le francesi Suez (con la divisione Ondeo) e Vivendi (ex Compagnie Générale des Eaux) e la tedesca Rwe (con la divisione Thames Water). Secondo un’inchiesta, in Europa e Nord America nei prossimi quindici anni il 65-75% degli acquedotti pubblici sarà controllato da queste tre società. Può, questo monopolio di fatto, portare a considerare l’acqua come bene comune e come diritto dell’uomo? In che modo applicare il principio di giustizia, centrale nel documento di Giustizia e Pace?
Il dicastero di Giustizia e Pace – che ha contribuito alla stesura del testo – plaude ad alcuni Paesi che “hanno inserito il diritto all’acqua nel loro ordinamento legislativo interno, precisando criteri di qualità e di quantità per i vari soggetti ed identificando le strutture responsabili della sua attuazione”. Si precisa nel contributo che “ciò è importante perché lo Stato è, nell’ambito del proprio territorio, il soggetto responsabile che deve garantire i diritti ed il benessere delle persone nonché la corretta gestione delle risorse naturali”.
E – sempre in ossequio al principio di giustizia – il contributo della Santa Sede chiede una governance internazionale, che “non va vista come un principio superiore che opprime le iniziative locali o statali, bensì come una necessità di coordinamento e di orientamento per una valorizzazione ed uno uso armoniosi e sostenibili dell’ambiente e delle risorse naturali in vista della realizzazione del bene comune mondiale”. È un’autorità differente da quella auspicata dal Pontificio Consiglio per la Giustizia e della Pace nelle sue riflessioni sulla riforma del sistema monetario internazionale? No. Si tratta sempre dell’autorità politica mondiale, proposta a partire dal principio che temi come la pace, la giustizia, la salvaguardia dell’ambiente, l’energia e l’acqua appunto sono problemi globali, e hanno bisogno di soluzioni globali.
L’autorità globale per il bene comune tocca necessariamente tutti questi temi. Potrebbe essere istituita tramite la riforma dell’Onu, in chiave più democratica e rappresentativa degli Stati. Si tratta di andare oltre i meri interessi degli Stati. Bisognerebbe allora anche dare maggiori poteri decisionali e rappresentativi all’Unep, l’agenzia Onu per la protezione dell’Ambiente. Sono i piccoli passi istituzionali cui punta la Santa Sede, con realismo cristiano, per riuscire passo dopo passo a compiere delle mini-realizzazioni funzionali che aprano la strada a quello che potrà essere il domani. Un domani all’insegna del bene comune e della destinazione universale dei beni