Il Papa e l’ Arcivescovo insieme alla scuola del silenzio e dell’umiltà dei camaldolesi
Il dialogo ecumenico passa da sempre per il monachesimo. Così nel pomeriggio romano la basilica di San Gregorio al Celio, luogo antico di monachesimo nel cuore della città eterna, il vespro comune del Papa e dell’arcivescovo di Canterbury ha segnato un lato passo sul cammino dell’unità. L’occasione è davvero grande. I camaldolesi celebrano i mille anni della fondazione del Sacro Eremo da parte di San Romualdo, e a San Gregorio di ricorda il Transito di San Gregorio Magno. Rowan Williams, Arcivescovo di Canterbury celebra con la Chiesa anglicana anche la missione agostiniana voluta da san Gregorio per gli Anglii. Due le letture scelte per la celebrazione. Uno in sintonia con la Quaresima. Il Papa ha commentato le parole di Paolo ricordando che siamo chiamati ad accogliere il dono che è Gesù stesso: “la sua Persona, la sua Parola, il suo Santo Spirito.” Ed ha aggiunto: “accogliere la grazia di Dio e acconsentire con tutto il cuore e con tutte le forze alla sua azione. E’ questo il segreto anche della vera gioia, e della pace profonda.” Del brano della Lettera ai Colossesi nel quale Paolo invita alla perfezione, il Papa dice: “Anche qui alla base di tutto c’è la grazia di Dio, c’è il dono della chiamata, il mistero dell’incontro con Gesù vivo. Ma questa grazia domanda la risposta dei battezzati: richiede l’impegno di rivestirsi dei sentimenti di Cristo: tenerezza, bontà, umiltà, mansuetudine, magnanimità, perdono reciproco, e sopra tutto, come sintesi e coronamento, l’agape, l’amore che Dio ci ha donato mediante Gesù e che lo Spirito Santo ha effuso nei nostri cuori.” Virtù che sono di cui è stata perfusa la Congregazione dei Monaci Camaldolesi dell’Ordine di San Benedetto che ha seguito l’insegnamento del “ “triplex bonum” della solitudine, della vita in comune e dell’evangelizzazione.”
Benedetto XVI ha ripercorso la storia della Congreazione attraverso i nome che la resero grande Da san Pier Damiani a Gregorio XVI a Marsilio Ficino e Cristoforo Landino fino agli anni drammatici della seconda guerra mondiale quando “gli stessi chiostri hanno propiziato la nascita del famoso “Codice di Camaldoli”, una delle fonti più significative della Costituzione della Repubblica Italiana”. E poi gli anni del Vaticano II e oggi i nuovi slanci missionari negli Stati Uniti d’America, in Tanzania, in India e in Brasile. “In tutto questo- ha detto il Papa- era garanzia di fecondità il sostegno di monaci e monache che accompagnavano le nuove fondazioni con la preghiera costante, vissuta nel profondo della loro “reclusione”, qualche volta fino all’eroismo.” Benedetto XVI ha ricordato le parole che il 17 settembre 1993, Giovanni Paolo II disse sul tema del Capitolo Generale dei calmadolesi: “scegliere Dio vuol dire anche coltivare umilmente e pazientemente – accettando, appunto, i tempi di Dio – il dialogo ecumenico e il dialogo interreligioso”.
Il Papa ha concluso ricordando che il Monastero camaldolese romano “ha sviluppato con Canterbury e la Comunione Anglicana, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, legami ormai tradizionali. Per la terza volta oggi il Vescovo di Roma incontra l’Arcivescovo di Canterbury nella casa di san Gregorio Magno. Ed è giusto che sia così, perché precisamente da questo Monastero il Papa Gregorio scelse Agostino e i suoi quaranta monaci per inviarli a portare il Vangelo fra gli Angli, poco più di mille e quattrocento anni fa. La presenza costante di monaci in questo luogo, e per un tempo così lungo, è già in se stessa testimonianza della fedeltà di Dio alla sua Chiesa, che siamo felici di poter proclamare al mondo intero”.
L’arcivescovo Williams ha offerto una riflessione sulla tentazione che ogni battezzato deve combattere. E lo ha fatto alla scuola di San Gregorio. “L’umiltà -ha detto- è la chiave di ogni ministero fedele, un’umiltà che cerca costantemente di essere immersa, introdotta nella vita del Corpo di Cristo, senza mirare ad un eroismo o ad una santità individuali. Ed è questa umiltà che l’autore della prima vita di San Gregorio, scritta in Inghilterra all’inizio dell’ottavo secolo, pone in testa alla lista delle sue virtù di santo, associandola con il dono della profezia, che gli permetteva di vedere ciò di cui il popolo inglese aveva bisogno e di rispondervi con l’invio, da questo luogo, della missione di Sant’Agostino.” Il primate anglicano ha sottolineato come “essere immersi nella vita sacramentale del Corpo di Cristo richiede l’immersione quotidiana della contemplazione: senza di essa, non possiamo vederci gli uni gli altri con chiarezza; senza di essa non riusciremo a riconoscerci veramente e ad amarci veramente gli uni gli altri, e a crescere insieme nel suo Corpo uno, santo, cattolico e apostolico.”
Traendo insegnamento dalla vita monastica Willimans ha ricordato la necessità di un “un habitus di discernimento, la capacità di penetrare al di là dei pregiudizi e degli stereotipi che colpiscono anche i credenti, in una cultura che è così precipitosa e superficiale in tanti dei suoi giudizi. E all’habitus del discernimento appartiene l’habitus di riconoscerci gli uni gli altri come agenti della grazia, della compassione e della redenzione di Cristo.” Una riflessione sull’oggi che ci allontana da meditazione e discernimento per cui serve una disciplina del silenzio e della pazienza “aspettando che sia la verità a manifestarsi a noi, mentre noi lentamente lasciamo da parte le storture nella nostra visione, causate dall’egoismo e dalla cupidigia. Negli ultimi anni, abbiamo visto svilupparsi un sistema di irrealtà estremamente sofisticato, creato e sostenuto dall’avidità; un complesso di comportamenti economici nei quali i bisogni degli esseri umani reali sembrano essere quasi interamente oscurati. Siamo divenuti familiari con una cultura febbrile della pubblicità, in cui veniamo indotti a sviluppare desideri irreali e sproporzionati. Noi tutti – cristiani e pastori inclusi – necessitiamo di una disciplina, che purifichi la nostra visione e ci ridoni un qualche senso della verità del nostro mondo, anche se ciò può produrre il “tormento” di sapere più chiaramente quanto la gente soffre e quanto poco possiamo fare per loro a partire dai nostri soli sforzi.” La conclusione dell’ arcivescovo è un riferimento alla definizione di “certa ma imperfetta comunione” tra cattolici ed anglicani usata nel 1989 da Giovanni Paolo II e da Robert Runcie.
“Nella disciplina della contemplazione e della quiete, noi siamo condotti più vicini alla verità, e così anche più vicini alla croce del Signore. Apprendiamo le nostre debolezze e apprendiamo qualcosa del mistero di come Dio si relazioni ad esse – non ignorandole o rigettandole, ma abbracciandone le conseguenze nell’incarnazione e nella passione di Cristo. Il suo auto-svuotamento richiede il nostro rinnegare noi stessi – un tema appropriato per questo tempo di Quaresima. Noi impariamo a mettere da parte le nostre agende piene e auto-referenziali, e a permettere al Cristo che dona se stesso di vivere in noi, di aprire i nostri occhi e di renderci capaci di servire.”
Al termine della recita dei Vespri il Papa e l’ Arcivescovo si sono recati insieme nella Cappella di San Gregorio dove hanno acceso due ceri per ricordare e onorare la memoria dell’apostolo della nazione inglese, San Gregorio Magno, e del missionario da lui mandato a predicare il Vangelo, Sant’Agostino di Canterbury.