Dal Sermig di Torino, una testimonianza sul caso Eluana

eluana englaro
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Continua a tenere banco la vicenda di Eluana Englaro. A Torino, i radicali hanno organizzato una veglia davanti al duomo per chiedere che la giovane donna in stato vegetativo possa essere lasciata morire “in pace e in silenzio”. Posizione chiara, a cui fa idealmente da contrappeso una testimonianza che arriva dal Sermig, la fraternità fondata, sempre nel capoluogo piemontese, da Ernesto Olivero. Il testo integrale…

Caro amico di 17 anni,

“uno tra tanti” come ti limiti a firmarti, mi chiedi cosa penso della storia di Eluana Englaro, la giovane donna di Lecco, da 16 anni in stato vegetativo, per la quale il padre ha chiesto e ottenuto l’autorizzazione a sospendere l’alimentazione forzata. Già, cosa penso? Me lo sono chiesta tante volte in questa estate strana, mentre lotto prima contro il caldo e l’umidità, poi contro la stanchezza che ogni tanto ti prende quando hai scelto una casa aperta agli altri 24 ore su 24… E mentre me lo chiedo, mi vengono in mente incontri e letture di questi ultimi tempi, di quelli che ti si stampano sul cuore lasciandovi la loro impronta indelebile.

Penso a padre Tan Tiande, cinese del Guangdong, imprigionato per 30 anni nell’inferno dei campi di lavoro forzato, inventati dalla Cina maoista per “convertire” i cosiddetti intellettuali al pensiero unico del proprio leader. “Avrei voluto correre nei campi e gridare ad alta voce ‘Dio, dove sei?’”, ricorda, e parla del dolore di scoprire a che punto possono arrivare uomini privati della loro umanità.

Penso a Gemma Galgani, mistica sconosciuta di Lucca, morta a 25 anni e un mese dopo aver provato sul proprio corpo e nella propria famiglia una concentrazione impressionante di sofferenze, eppure accettate e offerte per altri sofferenti, con tale serenità da portarla a somigliare al proprio Modello nelle stimmate.

Penso a Laura, amica del quartiere, due gambe come due fiammiferi inutili, ridotta così da un incidente stradale che ha stroncato, insieme ai suoi 30 anni, la grande passione per i viaggi ed il lavoro di infermiera. Laura, che ora non vuol più mangiare perché è rimasta sola ed è stanca di vivere, dopo aver perso il papà ancora giovane per un analogo incidente.

Penso ai due genitori che tra pochi mesi si vedranno “restituire” la figlia 38enne con sindrome dissociativa, dopo 14 anni di permanenza in una Comunità, e già nell’età della pensione si troveranno a ristrutturare completamente la propria vita per dare spazio alle esigenze della figlia.

Penso ai volti di queste e di tante altre persone incontrate negli anni di vita all’Arsenale della Pace e mi chiedo: quand’è che la sofferenza diventa troppa, quand’è che è una vita perde i requisiti minimi necessari per essere vissuta? E soprattutto mi chiedo: quand’è che questa sofferenza diventerebbe troppa per me?

Perché – capisco improvvisamente – il problema è proprio questo, il problema di tutti coloro che di fronte a situazioni come quella di Eluana abbracciano un partito preso: non potersi immaginare in una sofferenza simile. E quindi rimuoverla, a tutti i costi, chiedendo di eliminarne la vittima – per pietà umana, naturalmente – o individuando il “colpevole”, come se un povero padre esausto fosse responsabile di 16 anni di immobilità della figlia che ama. E se i colpevoli fossimo proprio noi, che ce ne stiamo a lato, guardiamo e sentenziamo?

“Non stiamo troppo vicini – ci scusiamo – perché la famiglia potrebbe non aver piacere”… Ma come non aver piacere? Come può non aver piacere di una visita, di un gesto di fraternità una famiglia che per anni e anni si trova inchiodata attorno ad un letto o ad un familiare dalla mente abnorme? Proprio questo, invece, ci fa paura: che “loro” abbiano piacere, che “noi” ci avviciniamo troppo e restiamo inchiodati, anche noi, perché quando si apre una porta poi è difficile richiuderla, perché la sofferenza di quella famiglia potrebbe diventare un po’ anche la nostra sofferenza, la nostra fatica, il nostro scontrarci con le grandi domande della vita. E in questo momento proprio non abbiamo voglia, o meglio, “non abbiamo tempo: i figli da crescere, il lavoro che preme, il gruppo degli amici che non capirebbe…”.

Le scuse non mancano, ma il motivo è sempre lo stesso: la sofferenza fa fatica, meglio starne lontani finché si può. Se tocca agli altri, meglio esorcizzarla, come se bastasse una firma su un appello o una raccolta di bottigliette d’acqua per risolvere il problema. E se invece cambiassimo rotta? Se anziché bottigliette d’acqua raccogliessimo ore di volontariato (cioè di amore) attorno a quei letti, attorno a quei corpi muti, a quelle famiglie esauste? Una bella sottoscrizione e poi via, mappando ed accompagnando i dolori della nostra città dentro i quartieri, le parrocchie, i condomini, le case di cura… Quanti dolori nascosti scopriremmo, quante Eluane, quanti Welby… ; ma anche tanta santità quotidiana, fatta non di grandi gesti ma di pazienza e forza d’animo, quella che un tempo si chiamava “fortezza” e che oggi non è più di moda. Scopriremmo che proprio affrontando la sofferenza, nostra e degli altri, le nostre vite diventerebbero più degne di essere vissute. Scopriremmo che l’umanità di Eluana (che non è minimamente in discussione) fa crescere la nostra, di umanità. E ringrazieremmo lei e la sua famiglia, per l’occasione che ci danno di dare un senso alle nostre vite.

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