La storia. Iraq, persecuzione e speranza
La fede messa alla prova dall’assenza di libertà religiosa è racchiusa in uno sguardo che brilla, nel bacio emozionato di una madre al figlio, nell’abbraccio orgoglioso di un padre in là con gli anni. E in una frase che dice tutto: “Sono pronto anche a morire”. Padre Robert Jiaijs ha 35 anni e da pochi mesi è sacerdote della Chiesa caldea irachena, dopo l’ordinazione ricevuta da papa Benedetto XVI nella basilica di San Pietro.
Originario di Baghdad, ha studiato al Pontificio istituto biblico di Roma, con l’obiettivo di tornare in patria per “testimoniare Cristo” al suo popolo. Una comunità numerosa quella caldea, che condivide insieme alle altre confessioni cristiane un presente di soprusi e di persecuzioni, ma anche di radicalità evangelica. I numeri parlano da soli: se nel 1950, i cristiani erano un milione e mezzo, oggi, sono appena 500 mila. Nella delicata fase del dopo Saddam, c’è chi ha lasciato il Paese e chi è morto.
Il 3 giugno del 2007 a Mosul, sono stati uccisi il parroco della chiesa del Santo Spirito, padre Raghiid Ganni, e tre diaconi (il caso più eclatante, tre le circa 50 vittime dell’anno); nel febbraio 2008, il rapimento e l’assassinio di monsignor Paulos Faray Rahho, arcivescovo caldeo di Mosul. E ancora, il 23 marzo 2008, giorno di Pasqua, è morto in ospedale un giovane caldeo, Zahar Oshana, ferito con colpi d’arma da fuoco davanti alla parrocchia di S. Elia a Baghdad.
Sangue versato, ma anche vessazioni che spesso non fanno notizia: l’assalto all’arcivescovado di Mosul nel dicembre 2004, le bombe contro le chiese negli anni successivi, il rapimento nel gennaio 2005 del vescovo siro-cattolico di Mosul, Basile Georges Casmoussa, i sequestri lampo di cui nessuno parla.
In uno scenario così complesso, storie come quella di padre Robert lasciano spazio alla speranza. “La mia vocazione è nata il giorno della prima comunione, quando ho sentito il desiderio di dedicarmi a tempo pieno alla Chiesa”, ha spiegato alle telecamere del Vatican Service News. Un sogno realizzatosi dopo gli anni di formazione a Roma, direttamente dalle mani del Papa, alla presenza degli amici e degli anziani genitori.
“E’ stata una grande gioia; – dice oggi padre Robert – quando Benedetto XVI ha compiuto con noi il gesto della pace, ho sentito la chiamata profonda a donarla al mio popolo che ha fame e sete della pace di Cristo risorto”. Proprio per questo, padre Robert è pronto a tornare a Baghad, la “diocesi più pericolosa del mondo”, con uno slancio che lascia poco spazio alla paura. “Accadrà anche a me quello che è successo a padre Ganni o a mons. Rahho? A volte ci penso, ma sono sicuro che neanche la morte può separarci dall’amore di Cristo”.
La Chiesa irachena vive così di questi esempi, mentre rimane ancora da decifrare lo scenario del futuro. Se l’estremismo è il primo nemico da fronteggiare, rimangono sul campo anche le contraddizioni della dialettica politica, a cominciare dai progetti di chi vorrebbe garantire la sicurezza, relegando i cristiani nell’enclave della Piana di Ninive (culla del cristianesimo nel Paese).
Un progetto vagheggiato da alcuni settori dell’amministrazione americana e anche da ambienti nazionalistici cristiani dello stesso Iraq. La Chiesa, tuttavia, la pensa diversamente. Scrive mons. Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk: “Come cristiani dobbiamo essere presenti ovunque, per testimoniare la nostra identità in mezzo agli altri. La nostra Chiesa non è stata mai nazionalista o chiusa in senso etnico”.
Qual è dunque la via di uscita? Per il vescovo ausiliare di Baghdad, mons. Shlemon Warduni, non spetta alla Chiesa indicare ricette economiche o politiche. Tuttavia, si chiede, “dov’è la democrazia tanto sbandierata, cosa si fa per il popolo iracheno e dov’è la comunità internazionale? L’Occidente non deve dimenticare l’Iraq e la guerra che lo sta distruggendo”.
Fonte: Nuovo Progetto – giugno 2008