La dignità della persona è la prima cura per l’Aids

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Nel documento post-sinodale Africae Munus c’è la sfida a debellare i mali dell’Africa. A cominciare dall’Aids, da affrontare rendendo “accessibili a tutti i trattamenti e le medicine necessarie”, e con un cambio di mentalità che prevede astinenza e fedeltà coniugale. Un tema che nell’Instrumentum Laboris del sinodo speciale per l’Africa era toccato in modo marginale. Durante il sinodo, però, del problema se ne parlò eccome. E il tema è entrato anche nel documento post-sinodale. Nel 2009, Benedetto XVI andò personalmente a consegnare l’Instrumentum Laboris in Africa. E quel viaggio fu fortemente caratterizzato dalle parole che Benedetto XVI pronunciò durante la consueta conferenza stampa in aereo. Quando gli fu richiesto del problema dell’Aids, il Papa sottolineò come non era con il preservativo che si sarebbe potuta risolvere davvero la questione. E affermò che quello che la Santa Sede auspicava, più che una maggiore distribuzione dei preservativi, era la concessione di cure gratis per tutti, in un continente dove la piaga dell’Aids era pesantissima e dove la povertà permetteva a pochi di procurarsi i costosissimi farmaci retrovirali.

Molto abilmente, l’opinione pubblica virò sulla questione del preservativo. Con risultati diplomatici maldestri e ammantati di cinismo. Come la posizione ufficiale di Germania e Francia contro le affermazioni papali. Come le proteste di molte delle associazioni per la salute riproduttiva che trovano alloggio e protezione nell’Onu. Come la notizia – diffusa al tempo dal quotidiano camerunense “Mutations” – che la Conferenza Episcopale del Camerun avrebbe sottoscritto un piano statale contro l’Aids che prevede anche la distribuzione dei preservativi. Un lavoro di lobbying ben strutturato, e non solo da parte delle case farmaceutiche.

Il vero nodo della questione non era però l’uso del preservativo. I numeri della diffusione del contagio sono impressionanti: secondo un rapporto dell’Unaids, l’ente dell’Onu che promuove e coordina l’azione globale per contrastare l’epidemia, nel mondo si contano 65 milioni di persone infette dall’Hiv, e dal 1981 l’Aids ne ha uccise più di 25 milioni. Nel 2005, l’Aids ha provocato la morte di 2,8 milioni di persone e ne ha infettate 4,1 milioni (di cui 540 mila bambini). E nel 2007 il numero dei nuovi infetti è stato di 2,5 volte superiore a quello di coloro che hanno ricevuto le cure con farmaci retro virali. La misura più efficace sarebbe un vaccino. Eppure, è stato notato, alla ricerca è destinata solo una miserrima parte rispetto alle spese dedicate alla ricerca sui farmaci post-contagio: circa un decimo nel settore privato. Questo perché un farmaco che agisce sui sintomi è più remunerativo di un vaccino, che invece previene il contagio e non richiede una somministrazione costante. Meno profitti per le case farmaceutiche, dunque. Che già nel 2001 intentarono causa contro il governo sudafricano e il “Medicines Act” varato dall’allora presidente Nelson Mandela, che permetteva la produzione in proprio di farmaci per la cura dell’Aids o l’acquisto diretto da alcuni Paesi che producono a prezzi bassi.

Il nodo della questione, dunque, è ancora più profondo. Ma la posizione della Santa Sede passa totalmente in secondo piano. Fu messa in forte minoranza, per esempio, alla Conferenza Onu di Pechino sulla salute della donna. E poi alla conferenza sulla Donna del 2005. Per comprendere dove sta la questione, basta rileggere quanto ha detto l’Osservatore Permanente all’Onu Francis Assisi Chullikat alla conferenza di Alto Livello su Hiv/Aids. Chullikat fece sapere di che la Santa Sede non condivide espressioni come “popolazioni a rischio” perché “trattano le persone come oggetti e possono suscitare l’impressione falsa che certi tipi di comportamento irresponsabile siano in qualche modo moralmente accettabili”; che i corsi di educazione sessuale “dovrebbero concentrarsi non sul cercare di convincere che comportamenti rischiosi e pericolosi facciano parte di uno stile di vita accettabile, ma, piuttosto, dovrebbero concentrarsi sull’evitare i rischi, il che è eticamente ed empiricamente sano”; che gli sforzi di usare gli stupefacenti come riduzione del danno “non rispettano la dignità di quanti soffrono a causa della tossicodipendenza perché non curano né guariscono le persone malate, ma anzi inducono erroneamente a credere che non possono liberarsi dal circolo vizioso della dipendenza”.

Intanto, si devono soprattutto a strutture nate in area cattolica i programmi più efficaci di lotta all’Aids. Come il progetto Dream, “inventato” dalla Comunità di Sant’Egidio e apprezzato dal Papa, che ha in cura 70 mila malati in dieci nazioni africane e che punta molto sulla prevenzione, in particolare sulla terapia dal quinto mese di gravidanza in madri sieropositive, che riduce – quasi azzerandola – la trasmissione del virus in fase di gestazione. Come tanti piccoli progetti e sostegni date dalle oltre 117 mila istituzioni sanitarie di area cattolica che si trovano nel mondo. Tutte basate su cure a costo zero (o perlomeno molto basso) e dignità della persona. E per questo, in qualche modo, fastidiose per tutti.

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