La speranza dell’Africa nelle dita di una mano. Il Papa in Benin incontra politici, diplomatici e religiosi.

Benedetto XVI fa un accorato appello ai governanti dell’Africa. “Non private i popoli della speranza, abbiate un approccio etico con il coraggio delle vostre responsabilità e se siete credenti pregate Dio di concedervi la sapienza!” Il Benin è stato scelto per la visita apostolica anche perché è un Paese pacifico, dove più religioni convivono (anche il voodoo è considerata una delle religioni dello Stato) e dove la democrazia si è affermata. È un modello per l’Africa, che si è arricchita di un nuovo Stato, il Sud Sudan, e Benedetto XVI lo ricorda nel suo discorso alle autorità. Arriva nel Palazzo Presidenziale dopo un breve tragitto, circondato dall’entusiasmo delle persone. Viene accolto dal presidente Thomas Yayi Boni, e la banda suona l’inno pontificio e poi l’inno del Benin.
Ed è un presidente visibilmente commosso quello che prende la parola per accogliere il Papa. Scandisce ogni parola con forza, con un andamento significato, sottolinea l’impegno del Benin, la gioia di avere Benedetto XVI lì in visita. Dopo, c’è un cordiale colloquio privato, che rinsalda ancora di più le relazioni tra Benin e Santa Sede. I rapporti tra Chiesa e Stato sono ottimi, il lavoro dei missionari e delle scuole cristiane e apprezzato e riconosciuto in Benin, ex Paese marxista dove il 42.8% della popolazione è rappresentato da cristiani. Di questi, il 27,1% è cattolico e il resto è costituito da fedeli di altre confessioni, soprattutto sorte dalla Riforma. I musulmani sono il 24.4% della popolazione, mentre gli altri praticano antichi credo africani.
Speranza è la parola chiave di questo viaggio in Africa. Al contrario della disperazione, che è individualista, la speranza è comunione. “Quando dico che l’Africa è il continente della speranza – dice il Papa – non faccio della facile retorica, ma esprimo molto semplicemente una convinzione personale, che è anche quella della Chiesa”. Perché – continua il Papa – “troppo spesso il nostro spirito si ferma a pregiudizio e immagini che danno della realtà africana una visione negativa, frutto di un’analisi pessimista”. Ma al paradigma dell’esperto, che impone le sue conclusioni, o a quello dell’etnologo curioso o a quello che vede nell’Africa come una risorsa da spremere (“Visioni riduttive e irrispettose, che portano a una cosificazione poco dignitosa dell’Africa e dei suoi abitanti”), il Papa contrappone proprio la speranza. Perché la speranza è un concetto universale, e “parlare della speranza significa parlare del futuro e dunque di Dio”.
La speranza è la chiave di lettura per due aspetti dell’Africa. Il primo è quella sociopolitico economica. “La persona umana – dice il Papa – aspira alla libertà; vuole vivere degnamente; vuole buone scuole e alimentazione per i bambini, ospedali dignitosi per curare i malati; vuol essere rispettata; rivendica un modo di governare limpido che non confonda l’interesse privato con l’interesse generale; e soprattutto, vuole la pace e la giustizia. In questo momento, ci sono troppi scandali e ingiustizie, troppa corruzione ed avidità, troppo disprezzo e troppe menzogne, troppe violenze che portano alla miseria ed alla morte”. Non è solo un problema africano: è un problema di tutto il mondo. E i popoli vogliono comprendere, non vogliono essere manipolati. Nessuna politica è giusta in assoluto e nessuna economia è neutra. Ma – ammonisce il Papa – deve essere fatta per il bene comune dell’uomo”. L’appello del Papa a tutti i responsabili economici è fortissimo: “Non private i vostri popoli della speranza!”
Il secondo aspetto riguarda il dialogo interreligioso. Quante guerre sono nate in nome di Dio? “Ogni persona di buon senso – afferma il Papa – comprende che bisogna sempre promuovere la cooperazione serena e rispettosa delle diversità culturali e religiose. Il vero dialogo interreligioso rigetta la verità umanamente egocentrica, perché la sola ed unica verità è in Dio. Dio è la Verità. Per questo fatto, nessuna religione, nessuna cultura può giustificare l’appello o il ricorso all’intolleranza e alla violenza”. Non si conosce l’altro se non si conosce se stesso, e per questo è necessario conoscere, praticare la propria religione, rinchiudersi nel “silenzio della sua camera interiore” per domandare la purificazione del suo ragionamento”. Vero è che il dialogo interreligioso spesso non è facile, o persino impedito per diverse ragioni. Ma “questo non significa una sconfitta”.
Il Papa incoraggia i rappresentanti delle religioni a proseguire nella via del dialogo, ricorda che particolarmente in Africa, dove “sono numerose le famiglie i cui membri professano credenze diverse, e tuttavia le famiglie restano unite. Questa unità non è solamente voluta dalla cultura, ma è un’unità cementata dall’affetto fraterno”. E – se ci sono sconfitte – ci sono anche molte vittorie, e questo è un campo in cui l’Africa è una “sorgente di speranza”. Una speranza che si racchiude nelle dita di una mano. E che per il cristiano si definisce – conclude il Papa – in tre simboli: l’elmo che protegge dallo scoraggiamento, l’ancora che tiene saldi in Dio, la lampada che permette di aspettare la fine della note. “Seguendo Pietro, auguro che la vostra fede e la vostra speranza siano in Dio”, dice il Papa.