Il cardinale Bertone in Bielorussia. Ma il dialogo passa ancora da Kiev
Il viaggio in Bielorussia arriva dopo altri due passaggi importanti: la tappa a Mosca del cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, e la visita dello stesso cardinale Bertone in Ucraina. Luoghi e contesti diversi, con uno sguardo comune rivolto agli ortodossi russi.
Perché se a livello ufficiale nessuno vuole sbilanciarsi e prevalgono i toni distensivi, tuttavia gli ostacoli rimangono e hanno un indirizzo preciso: il patriarcato di Mosca. A pesare nel confronto con Roma continuano ad essere le questioni di sempre: le accuse di proselitismo ai cattolici, il primato e la giurisdizione del pontefice, ma soprattutto il ruolo della Chiesa greco-cattolica dell’Ucraina (detta anche uniata), comunità del tutto simile agli ortodossi per riti, tradizione e storia, eppure legata al papa di Roma. L’espansione della Chiesa in un territorio considerato dal patriarcato di Mosca una propria area di influenza, viene vista come il fumo negli occhi, specie dopo l’annuncio dei greco cattolici di voler costituire un patriarcato con sede a Kiev.
In realtà, il Paese della Rivoluzione arancione riproduce, anche sul piano religioso, i contrasti sociali e politici delle sue anime principali: quella filorussa radicata nell’Est e quella europeista dell’Ovest. Un mosaico di fedi, formato dalla Chiesa ucraina-ortodossa che si riconosce nel patriarcato di Mosca, la Chiesa ucraina-ortodossa del patriarcato di Kiev, la Chiesa ortodossa autocefala ucraina e, infine, la Chiesa greco-cattolica, diffusa soprattutto nelle regioni occidentali. E sebbene il patriarca di Mosca, Alessio II, non sia l’omologo religioso dell’ex premier Victor Yanukovic, la sua posizione, ribadita nei giorni scorsi al cardinale Kasper, suona come un diktat: “l’espansione degli uniati” è uno degli ostacoli all’incontro con il papa. La Santa Sede si misura così con un paradosso che chiama in causa, da una parte la tutela della libertà religiosa di milioni di fedeli, dall’altra la ragione di Stato e dell’ecumenismo, con soluzioni per niente scontate.
Impossibile, infatti, non considerare le responsabilità religiose e politiche delle repressioni del ‘900 che hanno colpito gli uniati, a cominciare dal cosiddetto pseudo-sinodo di Lviv del 1946, che sotto la pressione dell’Urss e il tacito consenso della Chiesa ortodossa russa, liquidò la Chiesa greco cattolica, abolendo di imperio l’unione con Roma. Tutta la metropolia fu ricondotta sotto il patriarcato di Mosca, la cattedrale di San Giorgio diventò la sede dell’arcivescovo ortodosso russo Makariy, le proprietà e le chiese dei greco cattolici furono incamerate, mentre i vescovi e i sacerdoti che non accettarono il nuovo corso conobbero la realtà dei lager (un esempio fra tutti, quello del metropolita Josyp Slipyi, liberato nel 1963 dopo 18 anni di prigionia).
Soltanto con la disgregazione dell’Urss, i greco cattolici poterono riemergere, nonostante i numerosi attacchi delle autorità di Stato e le polemiche all’interno della Chiesa ortodossa. Negli anni ’90, furono ricostituite le diocesi, i vescovi rientrarono dall’esilio e riaprì l’Accademia Teologica di Lviv: una rinascita proseguita con il trasferimento della sede dell’arcivescovo maggiore da Lviv a Kiev (dicembre 2003), ma soprattutto con il voto del sinodo sulla costituzione di un patriarcato e la richiesta formale di approvazione alla Santa Sede, prevista dallo stesso diritto canonico.
Nel 2004, Giovanni Paolo II era pronto a dare il suo via libera, ma la questione si arenò di fronte alla ferma opposizione della Chiesa ortodossa, che attraverso il patriarcato di Mosca e il patriarcato ecumenico di Costantinopoli, minacciò addirittura di interrompere ogni relazione ecumenica con la Chiesa cattolica. Posizione durissima legata alla polemica sul proselitismo, ma anche ad argomenti più spiccioli, come la questione dei beni incamerati e la gestione organizzativa delle comunità. L’istituzione di una commissione mista e un viaggio a Mosca del cardinale Kasper scongiurarono la rottura del dialogo, mentre il riconoscimento del patriarcato di fatto fu sospeso. In un’udienza in Vaticano del febbraio scorso, i vescovi ucraini guidati dal cardinale Lubomyr Husar, hanno avanzato nuovamente la richiesta al papa, non ricevendo tuttavia una risposta.
In ogni caso, la diplomazia “religiosa” va avanti, insieme al confronto teologico con Mosca, anche se i greco cattolici sono convinti che il problema abbia radici soprattutto politiche. Esiste in definitiva una via di uscita? Per gli uniati (cardinale Husar in testa) l’obiettivo da raggiungere è l’unificazione di tutte le Chiese di rito bizantino in Ucraina (cattoliche o ortodosse) in un unico “Patriarcato di Kiev”. Una sfida locale che può rappresentare il vero punto di svolta nel dialogo ecumenico, facendo dell’Ucraina il laboratorio dell’unificazione tra Oriente e Occidente.