Lo Stato islamico e l’orrore della schiavitù sessuale
Dopo il macabro rituale che i miliziani del sedicente Stato islamico hanno organizzato a Mosul, in Iraq, che è costato la vita a 19 ragazze curde, colpevoli di aver rifiutato la schiavitù sessuale, ci si chiede se possa esistere un limite oltre il quale i combattenti jiadisti non si spingeranno.
Una seria riflessione – non solo a parole – dovrebbe coinvolgere trasversalmente tutte le componenti coinvolte – mondo religioso, civile e istituzionale. Orrori senza fine, per un gruppo armato che si appropria della religione, modellandola ai propri usi, per portare avanti strategie occulte – con l’aiuto di forze celate – destinate al potere economico. Non solo cristiani nel mirino del califfato; le efferatezze includono chiunque non è disposto a cedere alle loro pretese.
Bruciare delle ragazze all’interno di una gabbia metallica, cospargendole di combustibile equivale al degrado della civiltà. Cosa c’entra Dio in pratiche così deplorevoli? Se il passato ci insegna qualcosa, rimediare agli errori e correggere il tiro è possibile. Perché la stessa cosa non accade può succedere in altri contesti, che utilizzano l’odio settoriale, la ferrea contrapposizione tra “l’io” e “l’altro” per annientarlo, soggiogarlo e ucciderlo?
La fine delle giovani donne di religione yazida, è stata atroce. Nella pubblica piazza delle roccaforte irachena dal 2014, nessuno ha potuto contrastare l’azione terroristica. A breve magari seguirà il video delle riprese, da divulgare come monito. Il pensiero però adesso corre veloce alle circa 3.500 tra donne e bambini tenuti in schiavitù dal Califfato. È un numero notevole, spesso sottaciuto e in continua crescita, al crescere delle conquiste ed angherie.
Il sesso “debole” – che in realtà è molto più forte di tanti sedicenti uomini – in territori di frontiera continua ad essere relegato a mera merce di scambio nello scacchiere dominante. Tutte queste donne yazide, curde, musulmane colpite dallo Stato islamico stanno ricevendo in realtà poco aiuto, nei fatti, dalla comunità internazionale.
In realtà, non stiamo parlando di “infedeli” con cultura, usi e costumi differenti, da punire perché “peccatori”. Sono persone che professano la stessa fede in Allah, che seguono le disposizioni coraniche secondo le disposizioni del “Profeta” e che puntualmente vengono vessate per scopi “altri”.
È opportuno mobilitare la coscienza sociale e civile perché rispetto alle risposte militari, ha un effetto duraturo, capace di estirpare alla radice un problema che mina il dialogo e la cooperazione fra popoli.
Papa Francesco, nella sua opera di rinnovamento, alla sequela dei suoi illustri predecessori, cerca – nonostante le critiche dell’ala conservatrice – di salvaguardare il rispetto reciproco tra le diverse realtà religiose. La migliore risposta da dare ai fanatici del fondamentalismo è una vicendevole comunanza d’intenti.