Eluana, oltre gli schemi: voci dal mondo delle vite ”indegne” di essere vissute

La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili i ricorsi di Camera e Senato che chiedevano l’annullamento delle sentenze della Corte di Cassazione e della Corte d’Appello di Milano sull’interruzione del trattamento che tiene in vita Eluana Englaro, da 16 anni in stato vegetativo permanente. Il destino della donna rimane così al centro del dibattito.
Come spesso accade, i due poli del confronto parrebbero essere da un lato il mondo cattolico e dall’altro un non meglio precisato universo laico. Naturalmente, non è così. La storia di Eluana chiama in causa la sofferenza di numerose famiglie, quelle nelle quali uno dei componenti – a seguito di un incidente ma anche dal momento della nascita – vive in condizioni difficili: talvolta uno stato vegetativo persistente come quello di Eluana, altre volte forme di disabilità gravissime e altrettanto dolorose per i familiari. E’ proprio fra queste famiglie che la sentenza di Milano sul caso Englaro ha favorito il sorgere di una grave preoccupazione per il diffondersi di un principio per il quale si stabilisce se e quanto una vita sia degna di essere vissuta. Ascoltiamo le loro voci…
Si tratta di genitori, uomini e donne, la cui vita è stata caratterizzata dalla presenza di un figlio in condizioni di gravissima disabilità: qualcuno in stato vegetativo, altri affetti da durissime malattie. Persone, alcune credenti, altre no, che in larga misura hanno dovuto fronteggiare da soli la perenne emergenza, assistendo e curando direttamente nella propria abitazione i propri ragazzi: è il vissuto, insomma, a caratterizzare le loro prese di posizione. In queste c’è un minimo comune denominatore: il rispetto per la famiglia Englaro e l’astensione da qualsiasi giudizio personale sul comportamento dei familiari e del padre di Eluana.
RETI SOSTEGNO – “Senza alcun giudizio sul papà di Eluana, il cui dolore è grande e rispettiamo molto – afferma ad esempio Ada Anchisi Espa, mamma di Chiara, 21 anni, cerebrolesa gravissima – dobbiamo ricordare che oggi per Eluana non si sta parlando di eutanasia: questa sentenza non è la vittoria del diritto, ed è pericolosa perché farà giurisprudenza. “Prima in modo più subdolo – afferma l’Associaziobe bambini celebrolesi – e ora chiaramente si sta dicendo che se si ha una disabilità gravissima non vale la pena vivere, ma noi siamo testimoni di quanto l’amore che abbiamo per i nostri figli e la loro stessa vita, pur con tante difficoltà, favorisce una vita più piena e ricca, non solo per noi ma anche per la comunità che ci circonda”. Molti dei nostri figli – dice Marco Mirai, Abc – fin dalla nascita sono considerati “vegetali”, così come sono state considerate Terry ed Eluana, solo perché nati con gravissime lesioni cerebrali, o senza il dono della parola o dell’uso delle gambe e delle mani, e molti di loro vengono nutriti in maniera artificiale. Ma questo – spiega – non è accanimento terapeutico, perchè, come è detto anche nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, l’alimentazione è un diritto, non accanimento terapeutico”.
Ecco allora che a fianco all’interrogativo sul “diritto di morire”, si fa spazio la questione riguardante la costruzione di legami di affetto e reti di sostegno e di solidarietà. “Le esperienze di numerose persone – scrivono un folto gruppo di genitori con figli celebrolesi – dimostrano che il desiderio di vivere non dipende tanto dalla gravità della situazione biologica, quanto piuttosto dalla ricchezza della rete di relazioni che avvolge la persona e la sua famiglia”: si tende cioè a dimenticare – affermano – che “l’essere umano è innanzitutto un essere di relazione” e che “l’essenza della qualità di vita è determinata soprattutto dai legami d’affetto”, che sono percepiti con maggiore intensità e chiarezza da chi ha una disabilità. “Quando viene a mancare il sostegno della rete di affetti, ci si sente “schiacciati dal peso della patologia, che diventa insopportabile fino al punto di arrivare a desiderare la morte”. “La nostra esperienza – continuano – ci porta a dire purtroppo che non si sta facendo abbastanza per costruire legami d’affetto e reti di sostegno e di solidarietà: tanta è la solitudine da cui siamo avvolti nella nostra spasmodica ricerca di apparire e di emergere, che alcuni arrivano a desiderare la morte anche se apparentemente sani e senza problemi. Non deve quindi meravigliare se molti non riescono a cogliere il valore della vita di una persona con disabilità, specialmente se gravissima”. “Vita che, al contrario, – affermano – ha un valore incommensurabile quando valutata secondo la dimensione umana più vera e più profonda, quella delle relazioni e della solidarietà”.
VEGETALE O PERSONA? – “Mia figlia ha 35 anni, non cammina, non parla, non si alimenta da sola e riesce a deglutire il cibo solo se è frullato, non è in grado di lavarsi né di espletare le funzioni fisiche, e infatti sono io a svuotarle manualmente il retto ogni giorno: e lo stesso viene fatto in tutto il mondo a migliaia di altre persone disabili”. A parlare è Marina Cometto: la sua vita è sempre al fianco della figlia Claudia, alla quale è intitolata anche l’Associazione (Claudia Bottigelli) nata per tenere viva l’attenzione sulle persone che presentano gravissime limitazioni della integrità fisica e mentale. “Mia figlia potrebbe fare la pipì di fronte al Presidente della Repubblica o al Papa se non portasse il pannolone e non proverebbe nessun disagio tanto è il suo limite di coscienza: lei non è in grado di dire se ha freddo o caldo, se ha sete o sente i morsi della fame; lei sorride questo sì, e per me è segno che non ha dolore, non è in grado di esprimere opinioni in merito alla sua qualità di vita, il mondo potrebbe crollarle vicino e lei non batterebbe ciglio. Mia figlia è persona o è vegetale? Se io non le somministrassi più il cibo morirebbe di fame, perché non sarebbe in grado di reclamarlo né a parole né con il movimento; e sarei accusata secondo le leggi vigenti di omicidio. Qualcuno è in grado – chiede – di spiegarmi la differenza tra lei e Eluana? Senza però, vi prego, dirmi che in passato Eluana aveva espresso di fronte ad un amico la volontà di non stare in quelle condizioni… Voi nella vostra vita non avete mai cambiato opinione su nulla”.
“Nel caso della somministrazione dell’alimentazione e dell’idratazione – continua Cometto – non è neppure individuabile l’accanimento terapeutico: Eluana respira autonomamente, non è in morte cerebrale. Se una persona non dichiarata in morte cerebrale può essere lasciata morire d’inedia, che fine faranno tutte le persone non in grado di esprimere la loro volontà?”. Insomma, conclude la donna, “non è certo un positivo segnale per noi che viviamo ogni giorno la vicinanza di una persona con gravissima disabilità quello che è scaturito dalla sentenza, che anzi ci allarma e non poco: ogni giorno ci battiamo perché sia riconosciuto il diritto alla vita e alle pari opportunità dei nostri cari, e così si è cancellato molto dell’impegno da noi speso in tutti questi anni. Mi dispiace molto, per mia figlia, per Eluana e per tutte le persone che si troveranno un domani a dover subire quest’ingiustizia mascherata come atto d’amore”.
VITA DEGNA DI ESSERE VISSUTA – Proprio sulle ripercussioni sugli altri casi e sul principio sotteso alla sentenza ragiona un altro gruppo di genitori di persone con disabilità gravissima, uniti nel Comitato “Cinzia Fico”: affermano da un lato che la libera scelta della persona malata dovrebbe essere rispettata, ma notano che con la sentenza di Milano “si affermano principi che si fondano sulla “presunzione di poter stabilire univocamente se e quando una vita sia degna di essere vissuta”: e tutto questo “non può non portare forte preoccupazione ai familiari di quelle persone che non sono in grado di autodeterminarsi”.
“Ce lo aspettavamo – afferma il presidente Mario Caldora – ma forse non immaginavamo che un evento così triste e funesto quale è la morte annunciata di un essere umano, sarebbe stato accolto con toni così entusiastici e trionfalistici: era già successo con Terry Schiavo, che neppure un forte movimento d’opinione riuscì a salvare dalla condanna a morte, e capimmo subito allora che quello sarebbe stato il primo caso, ma non l’ultimo”. “Noi – continua Caldora – non vogliamo cadere nel tranello politico che divide l’opinione pubblica sulla opportunità di staccare la spina, che deve restare a nostro avviso una libera scelta della persona malata: vogliamo solo sostenere la preoccupazione di quei familiari di persone non in grado di autodeterminarsi (anche in coma vigile) per l’affermarsi di principi che si fondano sulla presunzione di poter stabilire univocamente se e quando una vita sia degna di essere vissuta”. Il responsabile del Comitato mette in rilievo come la discussione e la divisione dell’opinione pubblica in “fazioni” sul caso Englaro trascuri le implicazioni che si hanno sui numerosi altri casi di persone dipendenti per l’alimentazione e per i loro bisogni quotidiani dall’assistenza di terzi. “Molte di queste persone – sottolinea – grazie all’impegno e alle amorevoli cure di cui sono oggetto, riescono anche a vivere una vita che solo i familiari possono definire “dignitosa”. Il paradosso di queste vicende “estreme” come quella del padre di Eluana – conclude Caldora – è che i familiari che suppliscono all’assenza dello Stato (con misure adeguate di supporto) devono anche temere il giudizio di una parte della società sulla sorte dei loro cari”.