Sarajevo oltre la guerra?

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Hanno preparato l’altare con cura, con fiori bianchi e gialli provenienti dalla Croazia. La croce sembra venga da un monastero francescano che è rimasto completamente distrutto durante la guerra. La sedia sulla quale si siederà il Papa è stata fatta da due artisti musulmani, padre e figlio, che hanno anche intagliato sedie e arredamenti degli uffici della Comunità Islamica nel centro di Sarajevo, dall’altra parte del Ponte Latino, zona dove sembra Francesco Ferdinando si stesse recando per incontrare un leader islamico prima di essere ucciso da Gavrilo Princip. Sarajevo è pronta ad accogliere Papa Francesco.

Sarajevo si sveglia presto di mattina. Sono arrivati 600 pullmann, provenienti da Ungheria, Croazia, Serbia, Bulgaria. Saranno in 60 mila allo Stadio Kosevo per la Messa. Al centro giovanile, ne entrano solo 800, altri 3 mila saranno all’esterno. Non ci sono transenne, ma molta sicurezza in giro. Il Papa uscirà dall’aeroporto e percorrerà quello che durante la guerra fu ribattezzato “il viale dei Cecchini,” via d’accesso lunghissima e privilegiata dell’aeroporto che durante l’assedio di Sarajevo non poteva essere percorsa se non a rischio della vita. C’è un ponte, il Vrbanja, che il Papa guarderà solo di striscio, passando di fronte alla Chiesa di San Giuseppe, poco prima dell’arrivo al Palazzo presidenziale. Lì morirono Olga e Sueda, le prime vittime civili della guerra, nel 1992. Un anno dopo, lì fu ucciso Moreno Locatelli, cooperante italiano che insieme ad alcuni compagni stava facendo una commemorazione delle prime vittime. E lì morirono, il 18 maggio del 1993, i Romeo e Giulietta di Sarajevo, Bosko e Admira. Serbo lui, musulmana lei, vivevano un amore impossibile nel mezzo dell’odio etnico. Decisero di fuggire, prepararono i documenti. Da casa di Amira, dove vivevano, dovevano attraversare il ponte Vrbanja per passare un po’ di tempo con i genitori di Bosko, prima di partire. Non ci arrivarono mai. Corsero sul ponte, Bosko fu ucciso sul colpo da una pallottola alla testa, Amira fu gravemente ferita, e con le ultime forze si avvicinò al corpo dell’amato, e lo abbracciò: morirono così, e i loro corpi rimasero per otto giorni sul ponte, perché nessuno li poteva andare a prendere se non a rischio della vita.

Questa era Sarajevo durante la guerra. Una guerra ancora viva dopo venti anni. Se si pensa che venti anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia viveva il boom economico, e la Germania era andata oltre la disfatta, è incredibile come la guerra sia una realtà così viva e presente in Bosnia Erzegovina. La si vede nei cimiteri cittadini di Sarajevo, perché ogni angolo di terra verde era un possibile luogo di sepoltura, dato che era troppo pericoloso andare fuori città. Lo si vede nelle rose di Sarajevo, i segni delle granate riempiti con resina rossa a ricordare il martirio della popolazione. La guerra è una ferita ancora viva.

Colpa anche degli accordi di Dayton, che hanno cristallizzato una situazione esistente, senza andare troppo oltre. Non c’è stata purificazione della memoria, non c’è stata una elaborazione. La Bosnia è ancora un Paese diviso in due entità statali, con tre presidenti che si dividono la poltrona in turni di 8 mesi, con un Inviato Speciale delle Nazioni Unite che fa da garante.

Racconta Marjana, una giovane bosniaca che fa programmi di volontariato in Germania, che lei si aspetta dal Papa “uno shock, specialmente per i giovani, perché c’è bisogno di muoversi, di cambiare le cose.” Mentre un sacerdote si dice dubbioso dell’arrivo del Papa, perché “questi grandi eventi coprono i problemi, non li risolvono.”

Il problema a Sarajevo, in fondo, è dato da uno stato di guerra permanente che dura dall’invasione turca del XIV secolo, e da cinquanta anni di comunismo che hanno tolto all’uomo ogni dignità data dalla fede. Per questo le guerre di conquista si sono trasformate in una guerra di annientamento dell’altro. Perché l’altro non era più considerato come essere umano.

Ci sono tutti questi sentimenti misti a una certa emozione per l’arrivo del Papa a Sarajevo. Tutti – musulmani, ortodossi, cattolici, ebrei – sperano che lui possa dare il là ad una nuova rinascita della città. Oltre la guerra, verso una nuova era.

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