Irene e le sue figlie, la storia di una voce spenta dalla Shoah
Sarà che è ormai alle porte (domani 4 settembre) la Giornata Europea della Cultura Ebraica, con molte manifestazioni anche nel nostro Paese, sarà che si tratta di una delle migliori “riscoperte” letterarie degli ultimi tempi, ma la pubblicazione di un ultimo libro-biografia su Iréne Némirovsky è davvero una bella occasione per tornare ad occuparsi di questa grande scrittrice dal destino tragico. Il libro a cui facciamo riferimento si intitola “Mirador. Iréne Némirovsky, mia madre”, è pubblicato, in Italia, dalla Fazi editrice, ma soprattutto è scritto da Elisabeth Gille, una delle due figlie della scrittrice. Bisogna ricordare questa storia paradigmatica.
La Némirovsky nasce in Ucraina nel 1903, in una famiglia ricca di origini ebraiche. L’infanzia è dorata, ma anche molto infelice, per via del rapporto tormentato con la madre, assente, preoccupata solo di se e del tutto indifferente alla figlia. Qualcosa che ferirà profondamente Irène e plasmerà, in un certo senso, la sua creazione letteraria. A causa degli sconvolgimenti seguiti alla Rivoluzione del 1917, la famiglia lascia la Russia e, dopo lunghe e penose peregrinazioni, approda a Parigi. Qui si chiarisce la vocazione alla scrittura per la giovane brillante e tormentata. I suoi racconti e romanzi cominciano ad essere pubblicati con molto successo. Nonostante la conversione al cattolicesimo nel 1939, dopo l’invasione nazista della Francia, Irène Némirovsky, in quanto di origine ebrea, viene arrestata e deportata nel luglio del 1942 ad Auschwitz, dove morì un mese più tardi.
Anche il marito, Michel Epstein, che aveva cercato di farla liberare, muore in una camera a gas, nel novembre dello stesso anno, al suo arrivo ad Auschwitz. Le due figlie, Elisabeth e Denise, si salveranno grazie alla fuga e alla carità dei pochi amici rimasti, trascinandosi dietro, in quei tristissimi giorni di peregrinazioni e di pericolo, una valigia, che conteneva il manoscritto dell’ultimo romanzo, incompiuto, della mamma, quella “Suite francese”, che ripubblicata tanti decenni dopo, faceva riscoprire al mondo una straordinaria autrice, dalla scrittura poetica e insieme poco indulgente, capace di ritrarre la realtà nella sua fatalità e crudezza.
Alla fine della guerra, Elisabeth e Denise torneranno a vivere una vita più normale, o almeno a tentare di farlo. Tentativo non semplice, se si pensa a quando Denise racconta, in un’intervista di circa un anno fa, rievocando poi la figura dell’odiata nonna: «Mia mamma e lei si detestavano. Non si parlavano da anni. Mia mamma adorava il padre ed è per questo che in ogni suo libro c’è un ritratto feroce della madre. Dopo la guerra mi sono ammalata, non avevo soldi per curarmi e la tutrice mi ha portato dalla nonna a Nizza. Lei nel frattempo aveva ritrovato l’appartamento e la sua fortuna. Abbiamo bussato alla sua porta non so quante volte. Lei non ha aperto. L’ho rivista da morta, aveva 100 anni. Ci siamo sbarazzate di tutti i suoi ricordi».
Elisabeth intraprenderà una brillante carriera nel mondo letterario fino a diventare direttrice della Juilliard. In Mirador, scrivendo di Irene, Elisabeth scrive, in fondo, di se stessa: uno sguardo profondo e commosso sui suoi legami con il padre e con la madre, la sorella… E poi la fama e le sue illusioni, l’ebraismo e la Shoah. A poca distanza dalla celebrazione della Giornata europea della cultura ebraica, dunque, leggere la vita tragica di Irene Nemirovsky e delle sue figlie significa anche provare a comprendere uno dei tanti aspetti dell’identità ebraica e, ancora una volta, sentire il brivido terribile sotto l’ombra nera e infinita dell’Olocausto.