Le Acli hanno presentato uno studio sul lavoro

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Ben 356 euro al giorno. E’ la differenza tra lo stipendio medio di un dirigente e la paga di un operaio. Rispetto alla retribuzione di un ‘quadro’, un operaio prende in meno ogni giorno 127 euro. Rispetto a un impiegato, la differenza è di soli 22 euro. Sono alcuni dei dati diffusi dalle Acli durante le giornate del 44° Incontro nazionale di studi, a Castel Gandolfo, dedicato al tema del ‘Lavoro scomposto’. Il rapporto dell’Iref, l’istituto di ricerca delle Associazioni cristiane dei lavorati italiani, ha messo a confronto le retribuzioni medie giornaliere dei lavoratori dipendenti nelle diverse professioni del settore privato (Fonte Istat-Inps, Rapporto sulla coesione sociale, 2010). Rispetto alla retribuzione media giornaliera (82 euro), un dirigente guadagna 340 euro in più al giorno, un quadro 111 euro, un impiegato 6 euro in più. Un operaio si mette invece in tasca un salario giornaliero di 16 euro inferiore alla media. Peggio di lui solo il lavoratore apprendista, che guadagna in meno 31 euro al giorno. Le donne, rispetto agli uomini, ricevono in media al giorno 27 euro in meno.

 

 

Il presidente nazionale delle Acli, Andrea Olivero, ha spiegato nel suo intervento: “Al di là delle ovvie componenti organizzative che fanno riferimento a diverse mansioni, ruoli e responsabilità, sono dati che mettono in evidenza una divaricazione eccessiva delle retribuzioni, che non può non essere presa in considerazione in queste ore in cui si discute di sacrifici per il Paese. Ancora una volta la questione della redistribuzione si rivela cruciale. Non solo per esigenze di giustizia e di coesione sociale, ma per oggettive ragioni economiche. Restituire risorse ai lavoratori e alle famiglie del ceto medio è l’unico modo per garantire la tenuta dei consumi e il rilancio del Paese. Occorre assolutamente ripristinare nella manovra economica il contributo di solidarietà e la patrimoniale”.

Infatti, quello sui salari è solo uno dei dati presi in considerazione dalle Acli per mostrare le difficoltà e le contraddizioni di un mondo del lavoro ‘scomposto’, che necessita di una ‘profonda riorganizzazione’. In effetti le Acli invitano a “considerare la situazione attuale frutto esclusivo della congiuntura economica può essere fuorviante ed a non dimenticare i ritardi storici del sistema produttivo italiano”. In Italia 12 posti di lavoro su 100 sono oggi irregolari, 18% al Sud e il 27% il Calabria; mentre per quanto riguarda la struttura della produzione solo lo 0,1% di grandi imprese contro lo 0,5% della Germania e lo 0,4% della Gran Bretagna. Il prospetto demografico sempre più negativo: l’indice di ricambio della popolazione attiva (rapporto tra popolazione 15-24 anni e popolazione 55-64 anni, moltiplicato per cento) pone oggi l’Italia in una posizione intermedia rispetto all’Europa ma è destinato a peggiorare nettamente da qui a 20 anni.

Per quanto riguarda la ricerca e lo sviluppo sono solo 105.000 addetti nel settore privato, mentre in Giappone sono 6 volte di più. Quindi la ricerca dell’Iref ha preso in considerazione gli aspetti meno macroscopici del mercato del lavoro italiano, ma ugualmente utili per comprendere limiti e punti di debolezza in un’ ottica di ‘recupero della competitività’. I lavoratori della conoscenza nel settore privato in Italia sono poco più di 100.000, di cui 35.000 ricercatori, 41.000 tecnici e 24.000 altri addetti alla ricerca. Comparando i dati con quelli di altri Paesi a sviluppo avanzato, si nota che in Giappone il totale degli addetti è quasi sei volte superiore (683.000), tre volte in Germania (341.000). Una nazione demograficamente piccola come l’Olanda ha solo 6.000 ricercatori meno dell’Italia.

L’Italia sa ancora attrarre finanziamenti dall’estero in ricerca e sviluppo e si mantiene sopra la media, seppure di poco, anche per quanto riguarda la bilancia di pagamenti nel settore tecnologico (dati Oecd), ma difetta colpevolmente in brevetti di cooperazione e trans-frontalieri. Per quanto riguarda l’occupazione i ricercatori dell’Iref hanno annotato che diminuiscono gli occupati di fascia alta, mentre cresce l’occupazione non specializzata: “Gli indicatori di occupazione e disoccupazione, pur evidenziando dinamiche fondamentali come l’ingresso e l’uscita dal mercato del lavoro, non sono sufficienti per analizzare lo stato di salute di un sistema occupazionale”.

Ragionando sugli effetti della crisi sulla qualità dell’occupazione, le Acli hanno segnalato la progressiva diminuzione degli addetti alla manifattura tradizionale (-1,1% dal 2004 al 2007; -4,4% dal 2007 al 2009) e l’inversione di tendenza nei settori dell’high-tech, che tornano a scendere del 2,8% nell’ultimo triennio rilevato dall’Istat. Nel 2010 sono andate perse circa 70.000 posizioni dirigenziali, hanno perso il lavoro 78.000 professionisti della conoscenza e oltre 100.000 tecnici;  110.000 sono stati invece gli operai specializzati e gli artigiani costretti a lasciare i lavoro. Hanno fatto ingresso nel mercato del lavoro soprattutto donne in posizioni professionali non specializzate (+108.000) o impiegatizie (+58.000).

In sintesi, “a fronte di una perdita di occupati di fascia alta, si ha un ulteriore allargamento della base occupazionale poco o per nulla specializzata”. La composizione interna degli occupati presenta dualismi e divari ‘non più sostenibili’ tra lavoratori più o meno garantiti. Quasi un lavoratore su quattro (23%) ha una occupazione ‘non standard’, ovvero non a orario pieno e non a tempo indeterminato: il 12%, pari a 2.700.000 individui, è un lavoratore a tempo parziale, mentre l’11% è un atipico (tempi determinati e collaboratori). Il lavoro a tempo parziale interessa maggiormente le donne: le part-timers sono un 1.800.000. Per gli atipici il rapporto di genere è pressoché pari mentre l’età evidenzia una buona quota di giovani (39%), ma soprattutto un’elevata percentuale di individui adulti (il 48% degli atipici ha tra i 30 e i 49 anni).

La ricerca ha evidenziato che “dopo 15 anni di flessibilizzazione del mercato del lavoro sembrano essersi consolidate due generazioni di lavoratori flessibili: giovani in ingresso nel mercato del lavoro, adulti per i quali la fase dell’inserimento lavorativo è terminata ma che si ritrovano nelle stesse condizioni contrattuali di partenza”. Però uno dei fattori più importanti nelle crisi economiche è la capacità di riassorbimento del mercato del lavoro. A livello europeo l’Italia fa parte del gruppo di Paesi nei quali i disoccupati di lunga durata (almeno 24 mesi) superano il 45% del totale dei disoccupati. Mezzogiorno a parte, il dato più preoccupante è quello del Nord-Est, dove dal 2002 al 2007 la disoccupazione di luna durata è passata da un esiguo 17% a un ben più consistente 31,4%, tornando poi a scendere nel 2008 (29%): “Una delle aree più dinamiche del paese non riesce più ad occupare coloro che sono fuori dal mercato del lavoro da troppo tempo”.

Parenti stretti dei disoccupati di lungo corso sono quella quota di inattivi che si è soliti definire ‘scoraggiati’, ovvero individui disponibili a lavorare ma che dichiarano di non cercare lavoro perché sfiduciati rispetto alla possibilità di ottenere un impiego. In Europa questo dato continua ad oscillare attorno al 4% (sul totale degli inattivi) e sembra essere in moderata crescita per l’anno 2010 (4,6%). In Italia invece il dato è più del doppio e tra il 2009 e i 2010 è cresciuto di quasi un punto percentuale, arrivando al 10%. Nel complesso gli scoraggiati rappresentano 1.500.000 di persone, in gran parte concentrate nelle regioni meridionali.

Tra gli immigrati, la percentuale di sottoccupati (individui che dichiarano di aver lavorato, per motivi indipendenti dalla propria volontà, meno ore di quelle che avrebbero potuto o voluto fare) e sovra istruiti (persone che svolgono un lavoro che richiede un titolo di studio inferiore a quello in loro possesso) è maggiore rispetto agli italiani. La sottoccupazione interessa infatti il 4% dei lavoratori italiani, mentre tra gli stranieri si supera il 10%. La percentuale di sovraistruzione tra gli italiani è del 19% . Tra gli stranieri supera il 42%. La transizione che negli ultimi 15 anni ha ribaltato gli assetti del lavoro in Italia e non solo incide infine sugli umori e il grado di soddisfazione personale rispetto al lavoro.

Infine il rapporto delle Acli ha richiamato i dati della European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (Eurofound). Tra il 1995 e il 2010 la percentuale di persone molto soddisfatte del proprio lavoro è in calo in Italia sia tra gli uomini sia tra le donne: tra le lavoratrici si passa dal 30% al 21%; tra i lavoratori dal 25% al 21%. Considerando il tipo di lavoro, si nota che gli operai poco qualificati dichiarano una soddisfazione minore rispetto a quella degli altri lavoratori (13% nel 2010, contro il 34% degli impiegati altamente qualificati). Peraltro la soddisfazione degli operai, qualificati o meno, dal 1995 in poi è in calo. 15 anni fa un operaio qualificato su quattro (27%) si dichiarava molto soddisfatto del suo lavoro, nel 2010 è di questo avviso poco più di un operaio su dieci (11%).

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