La Chiesa e la lotta alle mafie

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Nei primi giorni di marzo il procuratore nazionale Franco Roberti ha lanciato una stoccata molto forte alle gerarchie ecclesiastiche: “La lotta alla mafia ha bisogno di un maggiore coinvolgimento della Chiesa… Sono convinto che la Chiesa potrebbe moltissimo contro le mafie e gran parte delle responsabilità le ha proprio la Chiesa perché per secoli non ha fatto niente”.

Ora la domanda è la seguente: la frase è stata lanciata per fare un po’ di clamore oppure il procuratore ha detto cose giuste? Qui, solamente, ricordiamo l’omicidio del beato Pino Puglisi e quello di don Giuseppe Diana; le battaglie civili di don Luigi Ciotti, ma soprattutto l’omelia di san Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi il 9 maggio 1993, dove disse con fermezza:

“Carissimi, non si dimentica facilmente una tale celebrazione, in questa Valle, sullo sfondo dei templi: templi provenienti dal periodo greco che esprimono questa grande cultura e questa grande arte ed anche questa religiosità, i templi che sono testimoni oggi della nostra celebrazione eucaristica. E uno ha avuto nome di ‘Concordia’: ecco, sia questo nome emblematico, sia profetico. Che sia concordia in questa vostra terra!

Concordia senza morti, senza assassinati, senza paure, senza minacce, senza vittime! Che sia concordia! Questa concordia, questa pace a cui aspira ogni popolo e ogni persona umana e ogni famiglia! Dopo tanti tempi di sofferenze avete finalmente un diritto a vivere nella pace. E questi che sono colpevoli di disturbare questa pace, questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire, devono capire che non si permette uccidere innocenti!

Dio ha detto una volta: ‘Non uccidere’: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte. Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”

Ma andando ancora indietro negli anni si può risalire ad un’intervista a La Stampa del 22 maggio 1959 con il vescovo di Palermo, card. Ernesto Ruffini, che disse: “Qui abbiamo problemi enormi da risolvere, pensi a cosa è la mafia, alla sua rete di delitti. Già i mezzi per combatterla sono insufficienti e come se non bastasse arriva una nuova amnistia. Faccia il calcolo di quante amnistie sono state concesse dalla fine della guerra, una ogni due anni”.

Ed in occasione della Domenica delle Palme del 1964, pubblicò una lettera pastorale dal titolo ‘Il vero volto della Sicilia’: “Si rileva dai fatti che la Mafia è sempre stata costituita da una sparuta minoranza. La Sicilia è ancora lontana dall’avere quel benessere che le spetta; per troppo tempo è stata quasi dimenticata; sono necessari provvedimento che il popolo non può darsi da sé. Occorrono case, scuole, specialmente elementari e professionali, e fonti di lavoro…

Urge che siano applicati con la dovuta energia e la maggiore sollecitudine i rimedi deliberati dalle pubbliche autorità, e altri siano presi se risultano necessari, perché scompaiano quanto prima la delinquenza e l’immoralità, sia individuali che associate”. E nel 1992 i vescovi italiani espressero ufficialmente nel Sinodo di Caltanissetta che ‘la scomunica dei mafiosi è latae sententiae, cioè automatica: “La nostra Chiesa per combattere il fenomeno della mafia intende ispirare la sua azione al principio dell’incarnazione della fede nella storia concreta del nostro popolo, calandosi nella sua situazione con i suoi problemi, i suoi condizionamenti, i suoi valori”.

Tornando al 2015, pochi giorni dopo il clamore della frase del procuratore nazionale la Conferenza Episcopale calabra ha ricordato la Lettera pastorale del 1948 dei vescovi meridionali, cui seguì il 30 novembre 1975 una lettera dei Vescovi calabresi dal titolo ‘L’ episcopato Calabro contro la mafia, disonorante piaga della società’;

mentre nello scorso gennaio è stata pubblicata la Nota pastorale della Chiesa calabrese sulla ‘ndrangheta, intitolata ‘Testimoniare la verità del vangelo’, nella quale si legge che “non sono mancate irresponsabili connivenze di pochi, nonché silenzi omertosi: e di questo i credenti sanno e vogliono chiedere perdono. Ma accanto alla gramigna, silenziosamente cresce il campo del bene che si distingue, senza mezzi termini, per la sua luminosità e la sua coerenza.

Un campo seminato dal lavoro capillare e feriale di pastori e di laici che, nella predicazione, nelle catechesi, nell’impegno sociale, hanno dissodato e coltivato il terreno perché cresca il buon grano. Nell’ultimo ventennio, c’è stato, un fiorire di iniziative ecclesiali, associative, culturali, che hanno recepito e tradotto le istanze evangeliche di liberazione della terra calabrese. Noi crediamo che per sconfiggere il male ciascuno deve fare il proprio dovere, fino in fondo.

Siamo convinti che alla Chiesa si debba chiedere di essere Chiesa, nello spirito e nell’insegnamento del Vangelo e non altro. Ce lo insegna il beato Puglisi, figura straordinariamente semplice che combatteva le cosche da prete: innanzitutto con la coerenza della vita e poi amministrando i sacramenti, strappando i giovani alla strada, spingendo e stimolando le istituzioni ad essere presenti, sempre e comunque. Cosa che fanno silenziosamente, ogni giorno, tanti sacerdoti e laici nelle parrocchie che in alcuni casi sono l’unico presidio sociale nel territorio”.

E nello stesso documento è evidenziata una presa di posizione netta e precisa: “La ‘ndrangheta non ha nulla di cristiano. E’ altro dal cristianesimo, dalla Chiesa. Non è solo un’organizzazione criminale che, come tante altre, vuole realizzare i propri illeciti affari con mezzi altrettanto illeciti e illegali, ma, attraverso un uso distorto e strumentale di riti religiosi e di formule che scimmiottano il sacro, si pone come una vera e propria forma di religiosità capovolta, di sacralità atea, di negazione dell’unico vero Dio.

L’appartenenza ad ogni forma di criminalità organizzata non è titolo di vanto o di forza, ma titolo di disonore e di debolezza, oltre che di offesa esplicita alla religione cristiana. L’incompatibilità non è solo con la vita religiosa, ma con l’essere umano in generale. La ‘ndrangheta è una struttura di peccato che stritola il debole e l’indifeso, calpesta la dignità della persona, intossica il corpo sociale”.

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