Grossman: fede e libertà nella Mosca del KGB

Davanti alla Madonna Sistina, portata a Mosca nel 1955 dai russi che l’avevano “requisita” a Dresda, dopo il crollo della Germania nazista, la gente fa la coda per ammirare quest’opera commovente dipinta da Raffaello. In coda c’è anche lo scrittore Vasilij Grossman, che poi scriverà: “La tela ci parla della gioia di essere creature vive su questa terra” e ci dice “quanto deve essere bella e preziosa la vita, e che non c’è forza al mondo in grado di costringerla a trasformarsi in qualcosa che, pur somigliandole, non sia vita vera”. Una vita che sembra scomparsa nei lager e nei gulag, nei palazzoni sovietici della periferia moscovita, o nei corridoi e nei sotterranei del Kgb, nelle stanze sovraffollate delle case in comune e nei tradimenti di padri, madri, figli, amici. Eppure, anche in questa forma di vita sfigurata agisce la forza dell’amore. Ne è convinto Grossman, un uomo e un artista che incarna perfettamente il destino grandioso e crudele della terra russa, insieme a quello terribile del popolo ebraico. Il suo capolavoro è il fluviale romanzo “Vita e destino”, ma prima di questo traguardo creativo era noto in patria per i suoi straordinari reportage dal fronte di guerra e per il suo sincero impegno in nome della “rivoluzione del popolo”.
Nel 1960 Grossman porta a termine il suo romanzo, che però viene subito confiscato dal Kgb: si tratta di pagine giudicate pericolose dal regime, perché parlano di libertà, di amore per il prossimo, di giustizia, di repressione. E soprattutto si instaura l’impossibile parallelo tra i lager nazisti e i gulag staliniani, in cui l’orrore è lo stesso, perché identico è il disprezzo per l’uomo, identica la follia del potere che mostra il suo volto bestiale. Grossman, sempre visto un po’ sospettosamente dalle strutture del partito unico, ora diventa decisamente un reietto. Il suo romanzo viene requisito, il lavoro nei giornali e nelle università comincia a scarseggiare, lui comincia a soffrire dei sintomi di quella malattia che lo porterà alla morte, nel 1963, un cancro allo stomaco. Intanto, però continua a scrivere: racconti, essenzialmente, e ancora un reportage. Nel 1961, infatti, per un paio di mesi, lo scrittore si trova in Armenia, per tradurre in russo un poeta armeno, Martirosjan, e qui scopre un mondo diverso, duro e insieme poetico, un popolo così simile a quello ebraico, per sorte, dolore, grandezza…
Queste pagine sono oggi ripubblicate da Adelphi, in un volume dal titolo “Il bene sia con voi!”. Questa è una frase augurale che gli armeni si scambiano incontrandosi ed è lo stesso augurio che lo scrittore rivolge a tutti, chiudendo il racconto-reportage dedicato appunto all’Armenia. Mentre sente che la vita lo abbandona, il suo sguardo diventa più luminoso, più benevolo, più ansioso di comprendere il senso della vita. Grossman non è credente, si proclama ateo, ma è convinto profondamente che il male viene sempre sconfitto dalla “bontà illogica”dei singoli, che si oppongono alle mostruosità messe in campo dalla Storia. C’è molto di religioso nel suo guardare agli uomini semplici, alla loro lotta anche contro se stessi, le proprie miserie e le proprie vigliaccherie. C’è molto dello sguardo rivolto a Dio nel suo fissare la montagna sacra, l’Ararat , o nel contemplare le antiche chiese armene, che fanno scrivere Grossman che “io che non sono credente guardo quella chiesa e penso: “Forse Dio esiste…La sua casa non può essere rimasta vuota per mille e cinquecento anni…”.