Da Street a Pop. OBEY al PAN di Napoli
Il PAN (Palazzo delle Arti di Napoli, in via dei Mille 60) ospita fino al 28 febbraio 2015 un’ampia mostra dei lavori di Shepard Fairey (n. 1970 a Charleston, South Carolina), uno dei più noti “street artists” americani. Più conosciuto con lo pseudonimo di OBEY, ha acquisito notorietà internazionale con l’immagine stilizzata in quadricromia di Barack Obama sovrapposta agli slogans-simbolo Hope (speranza), Change (cambiamento) divenuti i loghi non ufficiali della campagna elettorale del Presidente degli Stati Uniti d’America nel 2008. Questo celebre lavoro di grafica creativa fu definito dal critico d’arte del “New Yorker” Peter Schjeldahl: «la più efficace illustrazione politica americana dai tempi dell’Uncle Sam di James Montgomery Flag del 1917». Nel 2008 Obey ha dato vita ad una icona della comunicazione politica “popular” aggiornando le intuizioni e le tecniche che Andy Warhol aveva adoperato per produrre i ritratti serigrafati e colorati di Marilyn Monroe, Mao e della Campbell’s Soup: tra i due poli della “street art” e della “pop art” si muove la sua parabola in seno al mondo dell’arte americana di oggi. Dal pop alla street e nuovamente al pop si potrebbe dire. Dopo il diploma del 1988 all’Accademia d’arte – attingendo al mondo dei gadgets e degli oggetti transizionali giovanili – Shepard Fairey si diede al disegno e alla produzione di adesivi (stickers) che riproducevano il volto del famoso lottatore di wrestling André the Giant.
Muovendo dal dinamismo e dall’enfasi della “street art” – arte fuori del sistema dell’arte, arte di periferia, dai contenuti volatili, dal segno gratuito, prodotta con materiali di uso comune – Fairey introduceva, così, un elemento concettuale, metalinguistico e produceva un fenomeno mediatico destinato a far riflettere i cittadini sul rapporto con l’ambiente comunicativo urbano. Una nuova fase del “guerrilla marketing” di Obey, concentratosi sui temi cruciali della propaganda e del controllo sociale, si sviluppò nel corso del conflitto tra gli Stati Uniti e l’Iraq nel 2003 con la realizzazione di una serie di manifesti di stampo pacifista. Ma l’iniziativa che ha dato visibilità internazionale a Fairey è stata la creazione nel 2008 del manifesto Hope che riproduceva il volto stilizzato di Barack Obama. Il comitato elettorale di Obama non ufficializzò mai la collaborazione con Fairey – i cui manifesti venivano affissi illegalmente, come nella tradizione della “street art” – ma il presidente, una volta eletto, inviò una lettera all’artista in cui lo ringraziava per l’apporto creativo alla sua campagna.
Quella di OBEY è un’artisticità “minore” fatta di disegno, di serigrafia, di collage, di decorazione, ma anche di montaggio ironico, di didascalie dissonanti, di metafore paradossali come nella serie della “Hall of Fame” degli eroi dello sport – che sono, in realtà, ritratti di ragazzi di una qualunque periferia urbana che fanno acrobazie sugli skate-boards – o in quella degli attori de “Il Padrino” – il film di Francis Ford Coppola, 1972 – che illustrano con i loro sfavillanti ritratti gli slogans del mondo finanziario e del business americano, conferendo loro una sovrasignificazione inquietante e mafiosa.
L’esposizione napoletana – curata da Massimo Sgroi – raccoglie 90 opere che illustrano l’evoluzione stilistica di Shepard Fairey dalle impostazioni genuinamente street-artistiche – con la mitografia politica e sociale e il segno grafico che le caratterizzava – fino alla logizzazione del merchandising firmato OBEY degli ultimi anni (cappellini, sciarpe, skateboards, poster …): tanto che il Bookstore posto alla fine del percorso della mostra quasi non presenta soluzione di continuità rispetto alle sale che lo precedono. La mostra – ricca e coloratissima – consente al visitatore di analizzare l’intuizione artistica e comunicativa con la quale Fairey ha affrontato le tematiche della guerra, della pubblicità, del razzismo, della difesa dell’ambiente rivisitando l’iconografia del manifesto politico, della grafica psichedelica, dell’illustrazione di denuncia del “movement” e del “new left” degli anni ’60. La stampa, la discografia, il “da tse bao”, l’agitazione politica e culturale – trent’anni dopo che il nichilismo di Andy Warhol aveva spento le utopie del tempo nella riproduzione seriale dei segni urbani – sono nuovamente investite da Farley-OBEY di significato sociale. Tuttavia il suo lavoro non ha contenuto ideologico.
I soggetti degli anni duemila sono ancora Che Guevara, Angela Davis, Malcom X, Ho Chi Minh, Marx, ma la loro apparizione sui muri, nelle bacheche dei pub, sui pali della luce, nei corridoi delle metropolitane ha i contorni del santino, dell’icona del guru che pubblicizza il corso di “meditazione trascendentale”, della strip del fumetto: una immagine borderline tra la comunicazione ufficiale e la notizia di strada, il reale e il virtuale, il passato e il futuro. Il punto esteticamente rilevante del lavoro di Shepard Fairey sta nel perfetto adeguamento allo scenario postmoderno di omologazione fra arti basse (pop) e arti alte (cult), fra pubblicità e comunicazione, fra tecnologie di massa e tecniche artistiche.
La rinascita del gusto “pop art” che caratterizza il mondo contemporaneo – con il ritorno dell’icona di Warhol – è il segnale della convergenza fra il mondo digitale e la riproduzione seriale degli anni ’60. Il merito di Farley sta nell’aver sviluppato quella giusta forma della creatività che fa della diversità e della protesta l’ingrediente fondamentale della pubblicità e della massificazione.
Nella foto. Shepard Fairy: “Obama. Hope” (2008).