Il cardinale Bertone : i capi di stato mi chiedevano la benedizione di Maria Ausiliatrice

Condividi su...

Il 15 agosto del 2015 ricorrono i 200 anni dalla Nascita di S. Giovanni Bosco a Castelnuovo (Asti) oggi chiamato Castelnuovo Don Bosco. Una ricorrenza importantissima per la Chiesa cattolica, ma anche per la società perché San Giovanni Bosco con la sua opera ha segnato la storia del mondo. Le celebrazioni sono state aperte il 16 agosto del 2014 al Colle don Bosco.dal 19 al 23 novembre sarà Roma e il Salesianum ad accogliere un Congresso Storico Internazionale. 

Anche Korazym vuole rendere omaggio al Santo piemontese e lo fa con una lunga intervista al cardinale Tarcisio Bertone, salesiano e al servizio di tre Pontefici.  Ecco la prima parte del colloquio tutto dedicato al carisma salesiano nella sua vita.

In primo luogo mi piacerebbe iniziare con il suo rapporto personale con Don Bosco. Lei lo ha conosciuto in famiglia?  O direttamente a scuola? Si parlava a casa di Don Bosco?

Io sono piemontese del Canavese, una zona a cinquanta chilometri da Torino. Mio nonno materno era in un certo contatto con Don Bosco per l’alone di fama spirituale che circondava l’apostolo dei giovani e a casa aveva alcuni volumi scritti da Don Bosco come “La storia sacra” e “ La storia d’Italia”, con la sua firma autografa, che io ho ritrovato e ho poi mandato all’archivio centrale dei salesiani. Don Bosco era venuto ad Ivrea per visitare monsignor Moreno, e nelle “Memorie biografiche” c’è un ricordo del santo che parla della lotta contro il demonio nell’episcopio di Ivrea.

In famiglia e nel mio paese natale di Romano Canavese, Don Bosco era conosciuto e stimato e già diversi compaesani prima di me avevano frequentato i suoi Istituti.  Io ho fatto la prima media a Strambino, andando e venendo a piedi, ma c’era molta confusione nell’immediato dopoguerra e giravano anche armi, resti della guerra. Allora i miei genitori decisero di mandarmi a Torino. Nel 1946, per una ordinata formazione, fui mandato a Torino-Valdocco- nel primo istituto fondato da Don Bosco, dove ho frequentato la seconda e terza media e il ginnasio. Mi piacevano moltissimo le feste liturgiche splendide, io ero cantore nella Basilica di Maria Ausiliatrice e io ero incantato dalle liturgie che celebravamo nella Basilica di Maria Ausiliatrice, con i cantori e il piccolo clero. I soprani e i contralti erano presi tra gli studenti. Si provava la voce e poi chi era intonato veniva educato al canto. Eravamo 80 per gruppo. In quegli anni a Valdocco eravamo 700 ragazzi. La domenica si cantavano i vespri in latino con i mottetti di Alessandro De Bonis,  un salesiano di Napoli. La gente veniva per ascoltare il coro delle voci bianche. Ogni anno si celebravano una diecina di pontificali con il Cardinale di Torino o con altri Vescovi. Tutti preparati bene con la veste, ordinati e devoti. Io mi ripassavo i mottetti anche di notte.

Quando ha deciso di entrare nel noviziato che cosa le piaceva dell’essere salesiano?

La decisione l’ho comunicata ai miei genitori il 24 maggio del 1949 il giorno della festa di Maria Ausiliatrice. Loro sono rimasti sbalorditi perché non avevo mai pensato di farmi salesiano, ma volevo studiare le lingue. La svolta vocazionale è avvenuta nel maggio del 1949, quando un salesiano, Don Alessandro Ghisolfi, mi ha invitato a partecipare ad un ritiro spirituale vocazionale presso il noviziato dei salesiani che era vicino a Pinerolo. Lì mi hanno fatto balenare l’idea di diventare salesiano. Allora non avevo ancora 15 anni. A 16 anni ho fatto la prima professione religiosa salesiana. Quello che ho incontrato in Istituto è stata l’esperienza di uno spirito di famiglia, quindi di fraternità. E l’attestato di fiducia nelle persone. Mi pareva che aleggiasse ancora lo spirito di Don Bosco, non solo nelle parole e nelle celebrazioni agiografiche, ma nella concretezza della vita quotidiana, attraverso lo stile dei figli di Don Bosco. Nonostante la mia sofferenza per il distacco dalla famiglia – nel 1949 eravamo in un internato- ho percepito di vivere in una comunità familiare dove ci si rispettava, stimava ed amava, persona per persona. Gli anni successivi della mia vita salesiana, malgrado le innegabili difficoltà che qualche volta si sono presentate, hanno confermato questa esperienza e rafforzato la mia adesione  all’ideale salesiano. E’ da 64 anni che sono salesiano, e non mi sono pentito.

In molti si sono formati negli oratori e nelle scuole, poi però hanno preso altre strade.

É naturale che tutti gli ex allievi degli istituti e degli oratori salesiani abbiano preso la strada vocazionale e professionale conforme alla loro indole e alla chiamata speciale di Dio per ciascuno di loro. Una minoranza ha seguito la missione salesiana o nello stato sacerdotale o nella stato laicale, mentre la stragrande maggioranza con la solida base formativa umana e cristiana ha servito la società nei vari incarichi e nelle varie forme della presenza attiva e cooperativa, realizzando quel progetto di Don Bosco di offrire alla Chiesa e alla società civile “buoni cristiani e onesti cittadini”. E’ interessante notare che il sigillo della formazione salesiana emerge in tante circostanze e diventa quasi un punto di orgoglio degli ex allievi salesiani che non temono di presentarsi tali ai più svariati livelli. Io personalmente ho avuto ad esempio, quando ero segretario della Congregazione per la dottrina della Fede, l’esperienza di un convegno di ministri e politici dell’America Latina, convocati dall’allora Presidente Fanfani a Villa Madama. Io tenni una conferenza; ad un certo punto hanno incominciato a ricordare uno dopo l’altro la formazione salesiana, e alla fine mi hanno chiesto la benedizione di Maria Ausiliatrice. Così altre volte, durante i miei viaggi o ricevendo in udienza in Vaticano come Segretario di Stato, Capi di Stato o Ministri, questi pur essendo magari islamici o buddisti, hanno rivelato con compiacimento di aver studiato presso un istituto salesiano della loro nazione.

Come si combina il diritto canonico con il carisma salesiano?

Ah, questa è una domanda speciale! Potrei subito citare l’ultimo canone del Codice di diritto Canonico che recita: “Salus animarum suprema lex” ( Can. 1752) e accostarlo al motto di Don Bosco “ Da mihi animas, coetera tolle”. C’è quindi una affinità fondamentale nelle intenzionalità del diritto della Chiesa e del carisma di Don Bosco.

Don Bosco è stato un redattore di regolamenti e di costituzioni concentrati nell’essenziale, divulgati per rendere riconoscibili e comprensibili i suoi progetti pastorali (basta vedere il primo regolamento dell’ oratorio salesiano di Valdocco). Lui faceva statuti sintetici per rendere credibili le sue opere. E così poteva mandare i testi anche ai potenti del suo tempo. Le prime costituzioni nel 1859 sono bellissime, sono di una spiritualità fresca. Poi c’è stato il dialogo serrato con la Santa Sede per l’approvazione ufficiale, che ha confermato anche alcune novità del progetto di Don Bosco, ad esempio, per il voto di povertà, il concetto di distinzione tra proprietà e amministrazione dei beni. Concetto suggerito dal ministro Urbano Rattizzi: egli spiegò a Don Bosco che lasciando la proprietà ai singoli membri, lo Stato liberale del tempo non avrebbe mai sequestrato i beni, mentre ciò avveniva per gli Ordini e le Istituzioni religiose. Ma l’importante è lo spirito che animava la legge e che deva animare anche il diritto nella Chiesa, che è lo spirito della carità pastorale, soffuso dal metodo preventivo, cioè dall’impegno di formare delle coscienze ad una libera responsabilità, atta a prevenire per non dover poi reprimere. Nella recente storia della Chiesa, molti salesiani hanno rivestito incarichi concernenti lo studio e l’applicazione del diritto canonico nei vari settori della Chiesa stessa, basti pensare al cardinale Castillo Lara e al cardinale Stickler.

Il lavoro in diocesi, Vercelli e Genova è magari più facile da immaginare come legato alla scuola di Don Bosco. Ma c’è qualcosa di particolare che magari l’ha aiutata, uno slancio speciale?

La mia esperienza relazionale di educatore e di docente, e quindi il mio rapporto quotidiano con gli studenti o con i giovani incontrati in gruppi  nelle varie comunità degli Istituti salesiani  dove sono passato, mi ha abilitato ad uno stile di azione pastorale che ha unito la paternità- diciamo così la carità pastorale- alla familiarità, al senso della gioia dello stare insieme. Questo stile mi ha fatto conservare un animo giovanile anche nella varietà degli impegni e delle funzioni che ho svolto come arcivescovo metropolita, prima a Vercelli e poi a Genova. Per me era naturale incontrare i giovani anche per la strada o nelle piazze, fermarmi con loro prima di iniziare una solenne funzione liturgica nelle cattedrali o nelle chiese delle città e dei paesi, andare anche allo stadio per seguire una partita di calcio o fare una biciclettata con loro. Naturalmente questa compresenza e questa condivisione suscitava una simpatia e una reciprocità di dialogo che permetteva poi di passare al colloquio più spirituale fino anche alla confessione e all’aiuto nella scelta vocazionale.

Ad un certo punto è stato chiamato alla Congregazione per la Dottrina della Fede. Ed ha affrontato al fianco del cardinale Ratzinger e per incarico di San Giovanni Paolo II alcuni incarichi molto sensibili. Dalla vicenda Lefebvre a quella Milingo, fino ai tanti incontri con Suor Lucia per preparare la pubblicazione del Terzo Segreto di Fatima. Don Bosco aveva delle visioni enigmatiche sulla Chiesa. Ha mai messo in relazione questi eventi?

Arrivare alla Congregazione è stata una “svolta fondamentale”. Ho dovuto molte volte nella mia vita cambiare attività e approccio a nuove realtà.

Ma devo ricordare una cosa che disse don Egidio Viganò, grande rettore maggiore dei salesiani, quando io sono stato nominato segretario della Congregazione per la Dottrina della fede, una decisione sorprendente: “A pensarci bene è un  riconoscimento della Santa Sede per la fedeltà dei salesiani alla dottrina e al Papa”. Una bella lettura spirituale, ecclesiale. In genere i salesiani non danno problemi dottrinali.

Don Bosco ha trasmesso ai suoi figli un forte senso di Chiesa e di attaccamento al Papa. In diversi sogni ha ricevuto delle ispirazioni e in qualche modo dei suggerimenti che poi ha comunicato ai Papi del suo tempo, Pio IX e Leone XIII. In particolare, un sogno ha toccato la storia della Chiesa ed è stato messo in relazione anche con l’attentato a Giovanni Paolo II, è il sogno cosiddetto delle due colonne, durante il quale Don Bosco vede la nave del Papa in un mare in tempesta e pericolante  che si salva legandosi a due colonne che emergono dal mare: sull’una troneggia un ostensorio con l’ Eucaristia, e sull’altra veglia la Madonna. Negli scritti di Don Bosco in generale e nelle redazioni autografe dei sogni non vi sono accenni particolari che possano collegarsi alle vicende dello scisma di Lefebvre, alle apparizioni di Fatima e tanto meno a vicende come quella del caso Milingo, però c’è la traccia di una preoccupazione e quindi di un impegno di intercessione e di passione pastorale per il cammino della Chiesa nella temperie del mondo, e questo è un invito alla vigilanza e alla piena condivisione delle intenzioni e delle linee direttrici dettate dai Papi. Del resto i tre impegni di spiritualità dei salesiani sono semplici: Eucarestia, Madonna, Papa.

 

151.11.48.50