Lorenzo Galliani: non accontentarsi di un pareggio
Lorenzo Galliani, giornalista e scrittore, è l’autore del volume ‘Un assist dal cielo. Storie di campioni convocati dal Signore’, nel quale sono raccolte le testimonianze di campioni sportivi che hanno abbandonato la carriera per seguire la vocazione religiosa. Il libro racconta i profili di sacerdoti e religiosi che hanno abbandonato la carriera sportiva per rispondere alla chiamata della fede ma che non hanno dimenticato gli insegnamenti appresi. La prefazione è affidata a Dino Zoff.
L’autore si avvale anche dei contributi di quattro nomi noti (i campioni olimpici Sara Simeoni e David Rudisha, i mister Osvaldo Bagnoli e Davide Ballardini) che hanno avuto modo di conoscere alcuni dei protagonisti. Nell’appendice René Carlos Pontoni ricorda padre René Alejandro, attaccante del San Lorenzo che vinse il titolo argentino nel 1946, per la gioia di tanti tifosi, tra i quali un bambino di nome Jorge Mario Bergoglio.
Storie di fatica e sacrificio sportivo che hanno condotto i protagonisti a confrontarsi con una ‘chiamata’: Maria del Pino Rodriguez de Rivera conquistò, nel 1994, il titolo spagnolo di tuffi dalla piattaforma, oggi è suora missionaria nelle Filippine; Graziano Lorusso, padre francescano e cappellano nell’ospedale di Copertino, nel 1991 giocò i Mondiali Under 17 con Alessandro Del Piero. Classe 1974, il regista dal piede fatato vince il premio come miglior giocatore nella sfida tra l’Italia di Del Piero e Birindelli e l’Argentina di Veron.
Luigi Chiampo vinse la Maratona di Torino nel 1987, pochi mesi prima di essere ordinato sacerdote; Philip Mulryne, attirato dal carisma domenicano, può vantare un passato nel Manchester United. Oltre ai tanti che hanno lasciato l’agonismo (e ricchi contratti), c’è anche chi ha scoperto lo sport in un secondo momento. Come coach frate Colm O’Connell, che, arrivato in Kenya da maestro missionario, divenne una leggenda nel mondo dell’atletica. Per esempio Stefano Albanesi rifiutò un contratto in Serie B per entrare in convento.
Ma con l’autore siamo partiti da una domanda sul mondiale di calcio appena concluso. Infatti nel campo abbiamo visto molti giocatori farsi i segni della croce: superstizione o vero atto di fede?
“Difficile dirlo. A volte, lo ammetto, certi gesti sono talmente plateali da sembrare quasi finti. Immagino però cosa risponderebbero dall’altra parte: se credete in Dio, e credete che si sia fatto uomo e abbia salvato l’umanità, come potete rimanere così freddi e composti? La fede è una, i modi per esprimerla dipendono dalle culture e dalla propria sensibilità.
Magari c’è chi si fa il segno della croce solo per chiedere di vincere la partita. Può sembrare sciocco, vicino più alla cabala che alla religione. Eppure, quando siamo noi a desiderare con forza qualcosa, saremmo disposti a recitare anche trenta rosari di seguito. Cercare di valutare l’autenticità di un segno di croce è come lanciare un boomerang: può tornare indietro, e fare parecchio male”.
Come nasce il libro?
“L’idea di partenza è quella di capire cosa significa lasciare le proprie reti per seguire Gesù in una vocazione. Quali sono, almeno dal punto di vista di un ragazzo, le reti più pesanti, quelle dalle quali non ci si vorrebbe mai separare? Probabilmente, una carriera affermata nel mondo dello sport: chi è che non ha mai sognato di indossare la maglia della nazionale? Quasi tutti i protagonisti del libro sono ragazzi che hanno trasformato in realtà il sogno che avevano da bambini, diventando chi calciatore nel Manchester United, chi campionessa spagnola di tuffi, chi mezzofondista di alti livelli.
Arrivati a questo punto, lasciano le loro reti per entrare in convento o in seminario, rinunciando a quel sogno realizzato e, in alcuni casi, a contratti con cifre da capogiro. Una scelta così radicale la può fare o chi di colpo è partito per la tangente, o, come nel caso dei protagonisti del libro, chi ha davvero sentito qualcosa di grande nascere dentro al cuore: le mezze misure non ci sono. Paradossalmente, i sacerdoti e religiosi che ho incontrato spiegano di aver lasciato lo sport professionistico anche grazie allo sport: il patrimonio di valori che hanno trasmesso loro le varie discipline, dal basket al baseball, se lo sono portati dietro nella nuova vita di sacerdoti e religiosi”.
Nella prefazione Dino Zoff scrive: ‘La Bibbia ha insegnamenti sempre attuali, trasmette valori, dalla serietà alla dignità, che considero molto importanti’. Come attuarli nello sport?
“Lo sport è un formidabile strumento di pace. Non a caso a settembre, su richiesta di Papa Francesco, si giocherà una partita tra calciatori di tutte le religioni, in nome del dialogo. San Giovanni Paolo II diceva che anche attraverso lo sport si può costruire una ‘civiltà dell’amore’.
Suona strano, in un tempo in cui quasi ogni giorno leggiamo di scontri tra tifoserie o di vagonate di milioni spesi per dei giocatori. Ma se lo ‘sport malato’ fa notizia, significa che quello sano è ancora la normalità, la classica foresta che cresce e non fa rumore. Basta scendere in un qualsiasi campetto di periferia per rendersene conto: troveremo bambini e ragazzi che stringono amicizie, che si arrabbiano ma spesso sono capaci di scusarsi, che imparano la bellezza dello stare insieme. Lo sport è davvero allenamento di vita”.
Perché questi atleti hanno scelto di ‘giocare nella squadra del Signore’?
“Credo (e chiedo scusa se questa risposta può sembrare un’omelia un po’ sgangherata) che nella squadra del Signore ci sia spazio per tutti. Ma è fondamentale trovare il proprio ruolo, nello sport e ancora di più nella vita. Pirlo, da trequartista, era un buon giocatore: spostato davanti alla difesa si è trasformato in un fuoriclasse. Gigi Buffon, da piccolo, giocava a centrocampo. Non sarebbe mai diventato un campione, se non avesse scelto il ruolo che, di solito, i bambini cercano di evitare.
Così è anche nella vita: i ragazzi di cui parlo nel libro hanno scoperto che il posto giusto, per loro, era quello di sacerdoti, religiosi e missionari. Sono stati talmente attratti da questa scelta da non avere paura di essere sommersi dai fischi del pubblico (‘Ma come? Guadagni un sacco di soldi giocando a pallone e ora vuoi lasciare tutto per diventare francescano?’).
E’ una scelta coraggiosa, certo non la migliore per chiunque: nella ‘squadra del Signore’, per così dire, ci sono anche infaticabili padri di famiglia e nonne allegre. L’importante è scoprire il proprio ruolo, scoprendo così se stessi, e prepararsi a correre e faticare tanto. Perché, come dice Papa Francesco, non possiamo accontentarci di una vita da pareggio”.
Quale storia di ‘conversione’ ti ha più colpito?
“In realtà dietro ad ogni storia c’è un percorso, una vita vissuta, il volto di una persona serena. Sceglierne una significherebbe non scegliere le altre 14 del libro: troppo difficile per me. Se devo fare un nome, però, faccio quello di Chase Hilgenbrinck, che ha appena visitato l’Italia dopo essere stato ordinato sacerdote il 24 maggio scorso.
Calciatore statunitense, fu acquistato da una squadra della serie A cilena. Nel nuovo paese non aveva più la famiglia, né i vecchi amici, e non capiva una parola di spagnolo. Scoprì che solo due cose non erano cambiate. La Messa, chiaro. E il calcio: sul campo, con i compagni di squadra si intendeva anche senza parlare la stessa lingua. Lì intuì che anche lo sport, per così dire, tende all’universalità. E’ un incredibile bulldozer con cui si possono abbattere barriere che, altrimenti, continuerebbero a dividere popoli e nazioni”.