Il Resettlement della fotografia

“Resettlement” significa riassestamento. È lo sforzo di adattamento psicologico e di ripartenza sociale che compiono coloro che hanno attuato un drastico e radicale cambiamento delle proprie condizioni di vita. Il termine è per lo più riferito a coloro che sono “rifugiati”. Nel mondo di oggi appartengono a questa categoria almeno 51 milioni di persone (dati UNHCR del 2013): sono quanti sono emigrati forzatamente per guerre, distruzioni e miseria e che vivono in condizioni di assoluta precarietà ed indigenza. Per almeno 16 milioni di loro – quelli che si sono trasferiti lontano dal proprio Paese – il termine “Resettlement” descrive un processo di ricostruzione identitaria dal punto di vista sociale e relazionale.
Un rifugiato è una persona che ha lasciato la sua terra e attraversato un confine per sfuggire a una persecuzione religiosa, politica, sessuale o etnica. Ogni anno decine di migliaia di rifugiati vengono integrati negli Stati Uniti. Qui si scontrano con le difficoltà legate all’inserimento in nuove comunità e all’adattamento a nuove regole di convivenza: imparare una lingua straniera, adeguarsi a una cultura diversa nelle piccole città della Middle America come Fargo, Charlottesville, Erie o Amarillo. Qui alienazione e estraneità sono tanto più evidenti quanto irrisolvibili e i più soffrono dei propri traumi, delle proprie memorie e delle proprie nostalgie.
Adopero qui il termine “Resettlement” anche con un significato molto più lieve: è lo sforzo creativo che i fotografi hanno compiuto per padroneggiare le tecnologie fotografiche digitali e i nuovi sistemi di telecomunicazione planetaria. Il “Resettlement fotografico” implica il guardare il mondo con occhi diversi per cambiare radicalmente gli oggetti e i temi della fotografia. Fino agli anni ’70 del Novecento i generi fotografici più vicini all’odierno fotogiornalismo erano la fotografia sociale e il reportage. Oggi gli obiettivi digitali sono quasi tutti puntati verso i focolai di crisi e verso le emergenze del mondo e le immagini circolano con larga autonomia dalle parole.
Due mostre di fotografia – diverse tra di loro ma, in qualche punto, convergenti – si vedono oggi al Museo di Roma in Trastevere in Piazza Sant’Egidio 1/b: un museo prezioso per seguire la ricerca e l’evoluzione nel campo della fotografia orientata verso il mondo reale. Mi riferisco a “Refugee Hotel” di Gabriele Stabile e a “Born Invisible” di Sheila McKinnon in visione fino al 28 settembre. Il fotografo italiano Gabriele Stabile ha raccontato le prime vicissitudini dei rifugiati africani e orientali accolti negli Stati Uniti. Le immagini sono state scattate nei motel prossimi agli aeroporti americani. L’esposizione comprende 50 scatti – realizzati da Stabile dal 2006 al 2012 in bianco e nero e colore – in cinque punti d’accesso (Newark, Jfk, Miami, Chicago’s O’Hare e Los Angeles International). Il lavoro è stato svolto in collaborazione con l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni e altri gruppi umanitari. La mostra ha avuto grande successo a livello internazionale e si segnala – dal punto di vista dell’estetica fotografica – per la asciuttezza e immediatezza delle immagini. Senza orpelli estetici, in presa diretta, con inquadrature di fortuna, con un linguaggio efficace e intensamente descrittivo che racconta la vita di uomini e donne senza mondo, salvi ma irreparabilmente sradicati.
Più elaborata e rifinita – al limite del compiacimento della virtualità – è la mostra fotografica “Born Invisible” della fotografa canadese Sheila McKinnon. Il progetto espositivo è curato da Victoria Ericks, ambasciatrice in Italia per la onlus “Women for Women International”. Attraverso una selezione di cinquanta fotografie e di un video la mostra tratta tematicamente di ragazze e donne i cui destini sono stati determinati – per ragioni differenti e in contesti diversi – senza il loro consenso e la loro volontà. Anche qui abbiamo donne senza mondo e senza libertà, ritratte in angoli diversi del pianeta e in stato di precarietà e indigenza, ma il linguaggio fotografico è totalmente diverso da quello della mostra precedente. I colori sono sgargianti, le immagini sono montate in postproduzione secondo geometrie complesse e sfumate, le donne sono belle e interessanti nella loro sofferenza. Il messaggio è, allo stesso tempo, quello della emarginazione e della costrizione, ma anche della gioia e della vitalità femminili.
L’intento umanitario della mostra, secondo la missione della Ong, è quello di aiutare le donne, a livello internazionale, con forme di assistenza finanziaria, formazione al lavoro, educazione ai diritti. Utilizzando un linguaggio artistico raffinato e per nulla banale, ogni immagine della McKinnon diventa simbolo e rappresentazione di migliaia di vite. Il colore e il ritratto agiscono come un’esca per attirare e blandire la nostra attenzione con la seduzione dell’inquadratura. Poi si viene sospinti verso il soggetto politico e umano centrale: la marginalità, la privazione della libertà personale delle donne. Il tema sociale viene trasfigurato in una paradossale dialettica fra bellezza e violenza, sorriso e disperazione.
Nella foto: Gabriele Stabile, “Refugee”, 2012.