Corno d’Africa: vescovi per la speranza
Il 9 maggio scorso papa Francesco ha ricevuto i vescovi dell’Etiopia e dell’Eritrea e nel suo discorso disse: “La missione della Chiesa in Etiopia e in Eritrea è stata portata avanti con il sostegno di tanti religiosi e religiose che, per molte generazioni, hanno generosamente cooperato nell’edificare le vostre comunità locali.
Molti hanno lasciato la propria terra e la famiglia per venire nel corno d’Africa e unirsi ai religiosi locali nell’insegnare ai giovani, assistere i malati e rispondere alle situazioni pastorali delle vostre comunità. Così facendo, hanno rispecchiato il volto misericordioso di Cristo e aiutato le vostre Chiese a vivere il Vangelo. Mi unisco a voi nel ringraziare Dio Onnipotente per questi religiosi e religiose, passati e presenti, per i loro sacrifici e il loro indispensabile servizio.
Come parte del vostro ministero episcopale, vi chiedo di incoraggiare e sostenere i loro sforzi costanti per servire i bisogni spirituali e materiali attuali del popolo dell’Etiopia e dell’Eritrea. Come ha indicato chiaramente il Concilio Vaticano II, l’opera di evangelizzazione non è riservata al clero o ai religiosi, ma compete a tutti i fedeli cristiani, che sono chiamati a proclamare l’amore salvifico che hanno sperimentato nel Signore Gesù.
Apprezzo gli sforzi che avete compiuto per creare nuove opportunità per la formazione catechetica dei fedeli e per andare incontro ai giovani, che si trovano in quel momento decisivo della loro vita in cui sono sfidati ad approfondire il loro rapporto con Cristo e la sua Chiesa e in cui cercano di costruirsi una propria famiglia.
Dinanzi a tante sfide nella società contemporanea, tra le quali una cultura sempre più secolarizzata e sempre meno opportunità di un lavoro dignitoso, è fondamentale che uomini e donne laici saggi e impegnati guidino i giovani nel discernere la direzione da dare alla loro vita e garantirsi un futuro”.
Ad un mese di distanza della visita ad limina quattro vescovi eritrei scrivono una lettera in cui denunciano le drammatiche condizioni in cui si vive nel Paese. Nelle trentotto pagine della lettera, intitolata ‘Dove è tuo fratello?’, i vescovi descrivono una situazione insostenibile e fanno appello ai fedeli affinché si trovino soluzioni alla crisi economica, alla fuga alla quale oramai è costretto un gran numero di cittadini e alle altre situazioni di disagio estremo per le quali gli eritrei stanno soffrendo da anni.
La lettera affronta i grandi temi all’ordine del giorno in Eritrea, tra i quali il danno morale e psicologico inflitto a tutta la popolazione vessata da innumerevoli questioni; lo stato di povertà diffusa; le mancate tutele di uno Stato di diritto; la debolezza della vita spirituale; le difficoltà economiche e i disastri naturali, tutti problemi che inducono i giovani a fuggire dalla propria terra e ad affrontare grandi rischi per emigrare.
Il messaggio dei vescovi dedica anche spazio all’importanza imprescindibile del nucleo familiare, ai drammi causati dalle separazioni famigliari che spesso sono conseguenza delle migrazioni: “Il nucleo familiare è frammentato perché i membri più giovani sono andati via mentre gli anziani genitori sono lasciati a casa senza che nessuno si occupi di loro. Tutto ciò rende il Paese desolato”.
I vescovi denunciano anche il trattamento inaccettabile riservato ai detenuti delle carceri, ai quali invece “dovrebbe essere riservato un trattamento umano. Se vi sono delle accuse contro una persona esse devono essere sottoposte a un tribunale competente che giudicherà secondo legge”.
Poi, ricordando la tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013 (dove morirono decine di cittadini eritrei): “loro non avrebbero avuto alcun motivo di migrare se vivessero in un bel Paese”, nella lettera si evidenzia la responsabilità di coloro che hanno causato l’odierna situazione cui versa l’Eritrea, riducendo spesso il dramma eritreo a ‘mera retorica’, senza assumersene le proprie responsabilità dinanzi ai figli della Nazione.
Inoltre i vescovi denunciano il trattamento disumano riservato ai prigionieri, e scrivono “a tutti coloro che sono arrestati dovrebbe essere riservato un trattamento umano e se vi sono delle accuse contro di loro esse devono essere sottoposte a un tribunale competente che giudicherà secondo una legge costituzionale. E’ un problema di straordinaria importanza”.
Nella loro lettera i quattro vescovi, citando il rapporto 2013 di Amnesty International, sottolineano che “l’anno scorso circa 10.000 eritrei sono stati imprigionati per motivi politici dall’indipendenza dall’Etiopia nel 1993”. Infatti Amnesty International nel rapporto aveva denunciato:
“Migliaia tra prigionieri di coscienza e prigionieri politici sono rimasti in detenzione arbitraria in condizioni spaventose. Tra loro c’erano politici, giornalisti e praticanti religiosi ma anche persone che erano state colte nel tentativo di eludere il servizio di leva nazionale, di fuggire dal paese o di spostarsi all’interno dei suoi confini senza un permesso.
Alcuni prigionieri di coscienza erano detenuti senza accusa da oltre un decennio… Nel paese, l’impiego di tortura e altri maltrattamenti di prigionieri è stato un fenomeno dilagante. Prigionieri sono stati percossi, legati in posizioni dolorose, lasciati in condizioni climatiche estreme e tenuti in isolamento per lunghi periodi. Le condizioni di detenzione erano equiparabili a trattamento crudele, disumano o degradante.
Molti detenuti sono stati chiusi all’interno di container metallici o in celle sotterranee, spesso in località situate nel deserto, e dunque esposti a caldo e freddo estremi. Il cibo e l’acqua erano insufficienti e ai prigionieri sono state spesso negate, o fornite in modo del tutto inadeguato, le cure mediche”.