La precarietà del mondo. World Press Photo 2013

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Nulla meglio di una mostra di fotogiornalismo può documentare lo stato di sofferenza in cui si trova oggi il Mondo. A smentire gli ottimismi e le utopie con cui era stato salutato l’avvento del XXI secolo (“il Nuovo Millennio”) sono in mostra presso il Museo di Roma in Trastevere – fino al 23 maggio – una sequenza di 53 scatti dal denso cromatismo e dalla implacabile tragicità.

La mostra è promossa da Roma Capitale in collaborazione con “Contrasto” e la “World Press Photo Foundation” di Amsterdam. Da 57 anni una giuria indipendente, formata da esperti internazionali, è chiamata a esprimersi su migliaia di immagini inviate alla “World Press Photo Foundation” di Amsterdam – nata nel 1955 come istituzione internazionale indipendente, senza fini di lucro – da fotogiornalisti, agenzie, quotidiani e riviste. Non sono foto che hanno girato su internet o in televisione o sui quotidiani: si tratta di immagini che hanno qualcosa in più per crudezza di contenuti ed efficacia tecnica. Per questa edizione, le immagini sottoposte alla giuria del concorso “World Press Photo 2013” sono state 98.671, inviate da 5.754 fotografi professionisti di 132 diverse nazionalità. Tra queste 53 sono stati i fotoreporters premiati e divisi in nove categorie: Spot News, Notizie Generali, Storie d’attualità, Vita quotidiana, Volti (Ritratti in presa diretta e Ritratti in posa), Natura, Sport in azione e Sport in primo piano.

 

Foto dell’anno 2013 è stata giudicata quella dell’americano John Stanmeyer di “VII Photo Agency”. L’immagine mostra alcuni migranti africani che si muovono con i cellulari sulla spiaggia di Gibuti nel tentativo di prendere il segnale telefonico della confinante Somalia cercando un collegamento con i parenti lontani. Tre sono stati i fotografi italiani premiati: Bruno D’Amicis, Alessandro Penso e Gianluca Panella.

 

I teatri di crisi in cui sono state scattate le foto (non parliamo qui di quelle di argomento naturalistico e sportivo) sono la Siria, l’Afghanistan, l’India, la Colombia, la Russia orientale ma anche le metropoli occidentali: scenari in cui ai fotografi si sono offerte scene raccapriccianti di crisi, di violenza, di degrado. Non si tratta di immagini meramente cronistiche, bisognose di un articolo di commento, di scatti che fotografano vip o scene di edificante protesta, oppure di luoghi di catastrofe proposti nella cifra della spettacolarità e del sublime. Si tratta piuttosto di immagini che – con il corredo di una sobria e succinta didascalia – raccontano un evento della società umana giunta ai limiti delle sue stesse condizioni di esistenza.

 

Infatti, il fotogiornalismo presente sul WEB e nei Media seleziona accuratamente le immagini allo scopo di incuriosire lo spettatore e di fargli provare soltanto sensazioni controllate, emozioni transitorie in vista del prossimo “Happy End”. Qui si fa un passo oltre perché le immagini si discostano dal flusso mass-mediale, dai tempi della fruizione commerciale e restano cristallizzate sulla parete a simbolizzare una sconfitta dell’umanità, un lampo di indelebile sofferenza. Sono quindi immagini che, pure scattate da professionisti delle NEWS, non sarebbero pubblicabili in quanto non adatte alla fruizione distratta, al consumismo delle notizie: immagini improponibili ad un pubblico generalista e indiscriminato perché susciterebbero orrore e repulsione. L’esatto contrario dell’adescamento mass-mediale delle cosiddette “immagini forti”. Ci avviciniamo per questa via scabrosa a quella che alcuni critici chiamano “fotografia artistica”. Ma qui l’opera d’arte è trovata nella carne e nei volti dell’umanità stessa.

 

 

Nella foto: John Stanmeyer “Migranti sulla spiaggia di Gibuti” (2013).

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