La Chiesa venezuelana prende posizione. Quella brasiliana anche. La Santa Sede aspetta

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“Se ci sono due fratelli che combattono, devo essere sicuro che abbiano bisogno del mio aiuto”. Una posizione molto dentro la diplomazia pontificia spiega così la posizione attendista che la Santa Sede ha assunto riguardo la situazione in Venezuela. Una posizione che un po’ stride con quella dei vescovi venezuelani. I quali si sono pronunciati il 3 aprile in un duro documento contro il governo di Nicolas Maduro, accusato di essere all’origine della “grave crisi” che in sanguina il Paese, denunciando la “brutale repressione” con la quale ha risposto alle proteste che si susseguono da inizio febbraio.

È una posizione netta, quella dei vescovi venezuelani. Nei giorni scorsi, anche da loro era partita la richiesta di una mediazione da parte della Santa Sede. Una mediazione che il presidente Nicolas Maduro avrebbe forse voluto strumentalizzare, invocando la presenza del Segretario di Stato Pietro Parolin, che è stato nunzio nel Paese dal 2009 al 2013. Diplomatico fine, con la volontà di mantenere un equilibrio che permettesse alla Chiesa di non subire pressioni, Parolin in Venezuela si è dovuto contrapporre al governo di Hugo Chavez, il presidentissimo morto lo scorso anno che si è prodotto in attacchi alla Chiesa Cattolica persino in Parlamento e alla presenza dello stesso nunzio.

Ovvio che, se una mediazione vaticana ci dovesse essere, non sarà di certo il Segretario di Stato in persona a negoziarla. Ma dietro queste continue richieste si è anche intravista la volontà di un uso politico della mediazione della Santa Sede. E allo stesso tempo, non si sono viste possibilità di incidere, di procedere ad un dialogo fruttuoso.

E così, lo scorso martedì padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, ha sottolineato che il Vaticano sta sì considerando l’idea di promuovere, o prendere parte a, una mediazione, ma allo stesso tempo che prenderà la decisione con molta attenzione.

“C’è la necessità di approfondire meglio la prospettiva e le basi sulle quali la Santa Sede possa essere utile alla riconciliazione in Venezuela”, ha detto Lombardi. Parole che un po’ contrastano con quanto detto dallo stesso Lombardi lo scorso 29 marzo, quando spiegò che “la Santa Sede, e anche personalmente il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin – che conosce bene e ama il Venezuela, dove è stato nunzio – è desideroso di fare tutto ciò che è possibile per il bene e la serenità della nazione”.

In tre giorni, lo scenario è cambiato. E allora è arrivato l’invito alla prudenza di padre Lombardi, perché probabilmente – fanno sapere dal Vaticano – non si sono fatti progressi rilevanti nel processo di pace, e questo significa che anche la possibilità di una mediazione è ridotta al lumicino.

Con una scelta di realpolitik, la Santa Sede decide di non prendere una posizione nella mediazione. Ma sono i vescovi venezuelani che hanno deciso di far sapere cosa pensano. D’altronde, la situazione in Venezuela, seppur fuori dai riflettori dei media, è difficilissima. Le proteste sono iniziate lo scorso febbraio, ma hanno subito una escalation quando tre persone sono state uccise. La Guardia Nazionale Bolivariana è stata criticata per la risposta eccessivamente dura nei confronti dei dimostranti, che chiedono maggiore protezione della libertà di espressione, maggiore sicurezza e la fine del razionamento di cibo.

Temi ripresi dal comunicato della Conferenza Episcopale Venezuelana. In un comunicato letto dal presidente della Conferenza episcopale locale, Diego Padron, i vescovi cattolici hanno denunciato come “causa fondmentale” dell’ondata di disordini e violenze nel paese la volontà del regime di attuare un programma politico – il Piano della Patria, lasciato in eredità dal defunto Hugo Chavez al suo delfino Maduro – dietro al quale si intravede un disegno “totalitario”. I responsabili della Chiesa venezuelana hanno tracciato un bilancio molto negativo dell’azione del governo, accusandolo di non dare risposte adeguate a problemi come l’inflazione e la scarsità dei beni di prima necessità e l’insicurezza, che sono alla base del malcontento e della protesta di molti.

Per uscire dalla crisi, hanno sottolineato i vescovi, è necessario un “dialogo sincero”, che escluda “la persecuzione giudiziaria dei dirigenti antigovernativi”, e “con una agenda stabilita, in un clima di uguaglianza fra gli interlocutori alimentato da gesti concreti delle parti”.

Tutte condizioni finora rifiutate da Maduro. La dura presa di posizione della Chiesa venezuelana arriva pochi giorni prima del ritorno a Caracas della ‘troika’ di ministri degli Esteri dell’Unasur (Brasile, Colombia, Ecuador) che si sono offerti anche loro per favorire il dialogo.

Mentre i vescovi venezuelani combattono la loro battaglia, i vescovi brasiliani prendono una posizione senza precedenti. Nell’ambito delle commemorazioni dei cinquanta anni dall’inizio della dittatura militare (durata dal 1964 al 1985), i vescovi hanno diffuso un comunicato in cui si ammettevano le responsabilità di alcuni membri del clero nell’aver inizialmente appoggiato il regime militare, in chiave “anticomunista”.

“Se è vero che, in un primo momento, parte dei vescovi ha appoggiato il movimento che ha portato alla cosiddetta rivoluzione per combattere il comunismo,” è anche vero che “la Chiesa non ha omesso di denunciare la repressione non appena ha scoperto che i mezzi usati dai nuovi proprietari del potere non rispettavano la dignità umana e i diritti umani”.

Il documento non ha precedenti nella storia dell’episcopato latinoamericano, e ha colto di sorpresa gli stessi osservatori brasiliani. Il cardinale Raymundo Damasceno Assis, presidente della Conferenza Episcopale del Brasile, aveva fatto sapere privatamente negli scorsi giorni che i vescovi si sarebbero mantenuti il più neutrale possibile dal punto di vista politico in vista delle prossime elezioni.

Ma il ricordo della dittatura ha fatto scattare la necessità di una presa di posizione. Il presidente Dilma Roussef è stata imprigionata e torturata dalla dittatura militare, ma riscuote anche le simpatie di alcuni membri del clero nonostante l’agenda politica che sta portando ad una adozione pressoché totale dell’ideologia del gender. Questo perché parte del clero brasiliano è ancora legato alla Teologia della Liberazione non liberata, da cui vengono molti dei quadri politici (e socialisti) del Brasile.

La scelta dei vescovi di prendere una posizione e assumersi le responsabilità è anche un modo di “tagliare le ali estreme” dell’episcopato, togliere a tutti ogni possibilità di attaccare la Chiesa nel momento in cui, dopo le elezioni politiche, sarà chiamata a prendere posizioni forti. E allo stesso tempo è un modo per rafforzare i vescovi del Venezuela, per mostrare un sostegno indiretto. Perché Dilma Roussef è amica del presidente venezuelano Nicolas Maduro. Liberarsi dalle catene del passato, per i vescovi brasiliani, potrebbe significare essere i protagonisti della riscossa realmente cristiana della nazione.

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