Benedetto XVI e i “fratelli” ebrei
“Com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme!”. Nel pomeriggio di domenica 17 gennaio 2010 Benedetto XVI faceva sue le parole del Salmo 133 per introdurre il proprio discorso nella Sinagoga di Roma, durante la visita alla Comunità ebraica della Capitale, a quasi 24 anni da quella, ormai storica, di Giovanni Paolo II (13 aprile 1986). Un incontro per “rendere più saldi i legami che ci uniscono e continuare a percorrere la strada della riconciliazione e della fraternità” sosteneva il Pontefice, che l’anno seguente, rivolgendosi ai rappresentanti della Comunità ebraica al Reichstag di Berlino (22 settembre 2011), avrebbe ribadito che “la Chiesa sente una grande vicinanza al Popolo ebraico”. Quello tra cattolici ed ebrei si è infatti caratterizzato come un vero dialogo, fatto di gesti, di incontri, come pure di incomprensioni.
Colonia e New York. Non era la prima volta, quel pomeriggio del 2010, che il Papa tedesco entrava in una Sinagoga. Il 19 agosto 2005 si era recato in quella di Colonia, ricordando che la “fiaccola della speranza” è stata affidata da Dio agli ebrei come ai cristiani – accomunati dall’unica, eterna alleanza stabilita da Dio – perché la trasmettano alle nuove generazioni. Pertanto, “anche nelle cose che a causa della nostra intima convinzione di fede ci distinguono gli uni dagli altri, anzi proprio in esse, dobbiamo rispettarci ed amarci a vicenda”. Con un chiaro ammonimento: “Davanti a Dio tutti gli uomini hanno la stessa dignità, a qualunque popolo, cultura o religione appartengano”. Ebrei e cristiani devono quindi collaborare “per la difesa e la promozione dei diritti dell’uomo e della sacralità della vita umana, per i valori della famiglia, per la giustizia sociale e per la pace nel mondo” sulle tracce del Decalogo, che “è per noi patrimonio e impegno comune” – affermava il Pontefice in quella circostanza. A New York, poi, Benedetto XVI visitava la Sinagoga di Park East il 18 aprile 2008. “So bene che la comunità ebraica ha offerto un valido contributo alla vita della città – sostenne il Papa durante l’incontro – e vi incoraggio tutti a continuare a costruire ponti di amicizia con tutti i molti e diversi gruppi etnici e religiosi che vivono vicino a voi”.
Auschwitz e Yad Vashem. L’attenzione del Pontefice verso i “fratelli maggiori” ebrei si è manifestata anche in altre occasioni. “Non potevo non venire qui”, asseriva il Papa varcando il cancello del campo di concentramento di Auschwitz, il 28 maggio 2006. E, facendo memoria dell’immane tragedia della Shoah, quando “una folle ideologia razzista, di matrice neopagana” tentò di sterminare il popolo ebraico, poneva delle domande drammatiche: “Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?”. “Noi non possiamo scrutare il segreto di Dio – proseguiva però Benedetto XVI. Vediamo soltanto frammenti e ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia. (…) No – in definitiva, dobbiamo rimanere con l’umile ma insistente grido verso Dio: Svégliati! Non dimenticare la tua creatura, l’uomo!”.
Nella visita allo Yad Vashem – il memoriale coi nomi delle milioni di vittime del dramma sconvolgente della Shoah –, l’11 magio 2009, il Papa notava invece come i nomi di tutti “sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente”. E perciò “non si può mai portar via il nome di un altro essere umano”, nemmeno quando gli si vuol sottrarre tutto. Il grido degli uccisi si leva dalla terra come “una perenne condanna contro lo spargimento di sangue innocente”. E Dio ascolta ogni voce, perché “non sono esaurite le sue misericordie”, concludeva il Papa, citando il libro delle Lamentazioni.
Questioni controverse. Nel rapporto con gli ebrei non sono mancate incomprensioni e momenti di dissidio. Il 24 gennaio 2009 Benedetto XVI revocava la scomunica ai quattro vescovi ordinati illegittimamente da monsignor Marcel Lefebvre nel 1988. Uno di essi, l’inglese Richard Williamson, acceso negazionista, aveva proprio in quei giorni rilanciato le sue tesi negatrici dello sterminio degli ebrei ad opera dei nazisti. Altro capitolo riguarda la beatificazione di Pio XII, del quale il 19 dicembre 2009 sono state proclamate le “virtù eroiche”. L’accusa maggiore che larga parte dell’ebraismo mondiale imputa a Papa Pacelli è di aver taciuto di fronte allo sterminio nazista. A difesa di Pio XII, si sostiene che egli tacque per non provocare, con proteste pubbliche, ancora più vittime. E che anzi si prodigò moltissimo per salvare le vite di numerosi ebrei, che in effetti trovarono protezione in chiese, conventi, istituti cattolici. Infine, i contrasti sull’orazione contenuta nel Messale Romano, che invita a pregare per gli ebrei il Venerdì santo “affinché Dio e Signore nostro illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini”. Per alcuni ebrei sarebbe però intollerabile che i cattolici preghino per la conversione di Israele alla fede cristiana.
La visita di Roma. Nella sinagoga di Roma, Benedetto XVI ha incentrato il suo discorso sui Dieci Comandamenti, che “gettano luce sul bene e il male, sul vero e il falso, sul giusto e l’ingiusto, anche secondo i criteri della coscienza retta di ogni persona umana”. In questa prospettiva, vari sono i campi di cooperazione e di testimonianza da parte di ebrei e cristiani. Secondo il Papa, occorre “risvegliare nella nostra società l’apertura alla dimensione trascendente, testimoniare l’unico Dio”, poiché “nel nostro mondo molti non conoscono Dio o lo ritengono superfluo, senza rilevanza per la vita; sono stati fabbricati così altri e nuovi dei a cui l’uomo si inchina”. Il Decalogo impone inoltre “il rispetto, la protezione della vita, contro ogni ingiustizia e sopruso, riconoscendo il valore di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio”. E chiede altresì “di conservare e promuovere la santità della famiglia”. “Tutti i comandamenti si riassumono” poi “nell’amore di Dio e nella misericordia verso il prossimo. Tale Regola impegna Ebrei e Cristiani ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi”.
Il Pontefice concludeva osservando che cristiani ed ebrei condividono una grande parte del loro patrimonio spirituale: “Pregano lo stesso Signore, hanno le stesse radici, ma rimangono spesso sconosciuti l’uno all’altro. Spetta a noi, in risposta alla chiamata di Dio, lavorare affinché rimanga sempre aperto lo spazio del dialogo, del reciproco rispetto, della crescita nell’amicizia, della comune testimonianza di fronte alle sfide del nostro tempo, che ci invitano a collaborare per il bene dell’umanità in questo mondo creato da Dio, l’Onnipotente e il Misericordioso”.
Quelle radici comuni attecchiscono ancora oggi, a Gerusalemme, dove il Pontefice ha piantato un ulivo nel giardino del presidente Shimon Peres durante il suo viaggio nel 2009, come nel giardino del Tempio a Roma, dove ne è stato interrato uno a ricordo della visita di Benedetto XVI, che alla partenza da Israele aveva individuato in tale pianta “l’immagine usata da san Paolo per descrivere le relazioni molto strette tra cristiani ed ebrei”. La Chiesa delle genti è l’ulivo selvatico innestato sull’ulivo buono che è il popolo dell’alleanza. Si nutrono della stessa radice, e i loro rami sono fondati nello stesso Dio.