In preghiera per padre Dall’Oglio, a sei mesi dal rapimento

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Il 29 luglio 2013 padre Paolo Dall’Oglio era rapito a Raqqa, città della Siria controllata dalle milizie islamiste dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante. Sono trascorsi sei mesi senza notizia di lui. Padre Dall’Oglio ha dedicato la sua vita di gesuita alla Siria e al dialogo tra le sue anime culturali e religiose. Dapprima nella comunità monastica di Deir Mar Musa da lui fondata e, dopo l’espulsione nel giugno 2012, in esilio o in rapidi soggiorni nelle zone non controllate dal regime, ha continuato a lavorare per una Siria pacificata e per difendere i diritti violati di tanti civili.

E per mantenere viva la speranza della sua liberazione e di tutti gli altri rapiti mercoledì 29 gennaio in diverse città d’Europa e del Medio Oriente si terranno momenti di preghiera per ricordare lui, la sua Comunità in Siria e tutti i rapiti nel Paese. A Milano, presso la chiesa di San Fedele, nell’omonima piazza, sarà celebrata una messa alle ore 19.30. Stesso orario a Roma, nella chiesa di San Giuseppe, in via Francesco Redi 1 (via Nomentana).

Iniziative analoghe si svolgeranno contemporaneamente a Beirut, Berlino, Bruxelles, Doha, Dubai, Ginevra, Grenoble, Montreal, Parigi e Sulaymaniah, nel nord dell’Iraq, dove padre Paolo ha aperto in tempi recenti una nuova comunità di preghiera e dialogo interreligioso. Su richiesta degli amici e dei familiari del gesuita, l’incontro di preghiera in Siria ricorderà solo la sua attività umanitaria e l’apostolato. Non vi saranno invece richiami alle posizioni politiche, per evitare qualsiasi tipo di problema o strumentalizzazione alla comunità di Mar Moussa.

Ad ottobre dello scorso anno la casa editrice EMI aveva pubblicato il suo ultimo libro, ‘La rabbia e la luce: un prete nella rivoluzione siriana’, la cui edizione francese era stata pubblicata nel maggio scorso. Il libro è soprattutto un grido, quello di un uomo, un gesuita consacrato all’amore di Gesù per i musulmani, che ha dedicato 30 anni della sua vita al dialogo islamo–cristiano, senza mai smettere di costruire ponti e che in pochi mesi ha visto tutto quanto crollare in un orrore senza nome.

E’ un libro che contiene anche l’aggiunta della postfazione delle sue ultime parole consegnata a metà luglio poco prima di rientrare in Siria per una missione di ‘mediazione’: “La paura, la collera, lo scoraggiamento, l’angoscia mi hanno accompagnato. Ho provato inoltre, dopo questi giorni difficili, un bisogno di meditazione, di distanza contemplativa. Ho detto messa quando potevo… ho cercato di custodire una liturgia del cuore, una messa sul mondo, come direbbe Teilhard de Chardin”.

Fin dalla foto di copertina il libro è eloquente: “Questa mia foto del bombardamento di Saraqeb alla fine di febbraio è quella d’una casa dove è morta una mamma e un bambino… pochi minuti prima dello scatto… dice bene la banalità del male… e quanto siano qui le vittime la povera gente del proletariato urbanizzato… il fiore di plastica spampanato serve per introdurci nella casa distrutta dei poveri ed esser ospiti dei loro sentimenti più intimi devastati dalla guerra”.

Eppoi racconta la storia del suo amore per il popolo siriano: “Ho visitato la Siria degli Assad (l’espressione è consacrata dall’uso di Regime) una prima volta nel 1973, appena prima della Guerra di Ottobre; ne riportai l’impressione di un popolo sottomesso ad una macchina di propaganda nazionalista possente mobilitata al massimo in senso anti israeliano… I Paesi arabi subivano l’occupazione di vasti territori da parte di Israele, c’era la Guerra Fredda… per tanti motivi ero solidale, come lo sono oggi, con le sofferenze del Popolo Palestinese e degli Arabi in generale. Ma quell’attitudine di manipolazione totalitaria dell’informazione già mi ripugnava.

Sapevo che si trattava di una dittatura e non nutrivo illusioni sul rispetto dei diritti dell’uomo in quel paese. Nel 1978 ero a Beirut durante il terribile assedio dei quartieri cristiani di Achrafiye da parte dell’esercito siriano. Nel 1980/81 ero a Damasco per lo studio dell’Arabo, delle Chiese Orientali e dell’Islam, ed ho amato infinitamente quel buon vicinato siriano nel rispetto e nel pluralismo che non è stato creato dal Regime ma che questi ha cercato di recuperare a suo merito mentre lo corrompeva sul piano morale e ideologico. Venni in contatto e a conoscenza dei metodi di sistematica tortura repressiva utilizzati dal Regime. Se volevo restare nel paese dovevo assoggettarmi come tutti.

Ma non ero obbligato ad assoggettarmi in coscienza. Moltissimi cristiani già lasciavano allora il paese visto il perdurare della situazione di incertezza nella società locale e nella regione. Alcuni erano pro regime, altri contro, ma tutti cercavano di partire per il futuro dei loro figli. Bisogna ricordare che allora la solidarietà del regime con il mondo sovietico era evidente, anche riguardo alle libertà democratiche criticate come borghesi e asservite alle logiche neo imperialiste. Nel 1982 ero studente di teologia a Roma quando avvenne il terribile massacro della popolazione civile di Hama durante l’insurrezione dei Fratelli Musulmani. Ne soffrii tanto da ammalarmi.

Non se ne poteva parlare pubblicamente altrimenti mi scordavo la possibilità di rientrare in Siria dove mi sentivo chiamato a servire l’armonia islamo-cristiana… ripetevo negli anni senza stancarmi che occorreva fare di tutto per facilitare un’evoluzione e un cambiamento democratico per gradi e per riforme successive per evitare altri bagni di sangue. Tuttavia ero perfettamente cosciente che un continuo, silenzioso massacro avveniva nelle carceri, nei lager, nei gulag siriani. Ne avevo ricevuto in diverse occasioni delle testimonianze dirette. In questo spirito, con questi sentimenti contrastanti, eppure con molta speranza ed entusiasmo, ho vissuto nella Siria degli Assad per più di trent’anni”.

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