La diplomazia della gioia di monsignor Parolin
Gli esseri umani sono “creati per la gioia e per cercare la vera gioia”. Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, ha incontrato per la prima volta gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede lo scorso 13 dicembre. L’incontro sembrava essere la naturale conseguenza di una serie di iniziative diplomatiche da parte di organismi della Santa Sede: la campagna di Caritas Internationalis “One Human family, food for all”, supportata con forza da Papa Francesco; l’intervento sulla libertà religiosa del “ministro degli Esteri” vaticano Dominique Mamberti alla conferenza su “Cristianesimo e Libertà”; il discorso che Papa Francesco ha tenuto di fronte a 17 nuovi ambasciatori non residenti, il 12 dicemebre, chiedendo un impegno comune per fermare il traffico di esseri umani.
Nel suo primo incontro con gli ambasciatori, Parolin ha però voluto fondare tutto quanto il suo discorso (pronunciato in francese, la lingua dei diplomatici) sull’annuncio del Vangelo e la sua disponibilità all’impegno comune, spendendo molto della credibilità che si è guadagnato nei suoi molti anni di servizio in Segreteria di Stato, prima di essere inviato nunzio in Venezuela.
Vogliamo costruire insieme – ha detto Parolin – una umanità che vive “la gioia di incontrarsi e condividere, del dialogo e della riconciliazione”.
Parole che danno l’idea di una grande fotografia. Ma come questa grande tendenza generale all’annuncio della gioia del Vangelo sarà tramutato in chiave diplomatica?
All’inizio del Pontificato di Benedetto XVI, il suo continuo insistere sul concetto di verità, culminato poi nel primo messaggio per la Giornata Mondiale della Pace “Nella verità, la pace”, diede un indirizzo netto all’attività diplomatica della Santa Sede.
Primo: rendere testimonianza alla verità del Vangelo. Questo era stato il comandamento dei diplomatici vaticani. Anche quando questa verità sarebbe stata scomoda da dire. Ne sono venuti fuori pronunciamenti importantissimi, tra cui una difesa della sovranità delle comunità religiose di Dominique Mamberti che resta ancora una pietra miliare dei discorsi sul tema della libertà religiosa.
Sono temi che lo stesso Mamberti ha ripreso il 12 dicembre al convegno organizzato a Roma dalla Georgetown University. Una riflessione che Mamberti ha fatto partire da un anniversario, il millesettecentenario dell’editto di Costantino.
“Costantino – ha detto Mamberti – intuì che lo sviluppo dell’Impero dipendeva dalla possibilità per ciascuno di professare liberamente la propria fede. Più ancora che il frutto di un intelligente calcolo politico, l’Editto di Milano fu un grande passo di civiltà”.
Mamberti ha sottolineato che l’editto “non solo riconobbe un diritto fondamentale, né si limitò a garantire la libertà di culto ai Cristiani, ma anzitutto affermò che la libertà religiosa è un fattore di stabilità civile e di creatività sociale”.
Ma il ministro degli Esteri vaticano ha voluto anche fugare “un equivoco nel quale è facile incorrere, poiché la parola “libertà” può essere interpretata in molti modi”. Ma – Mamberti spiega – essa non può essere ridotta al mero libero arbitrio, né intesa negativamente quale assenza di legami, come purtroppo accade nella cultura di oggigiorno”.
Mamberti ricorda le parole di Benedetto XVI: “Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti,n on ha una ‘identità’ da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre ‘volontà’, anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre ‘ragioni’ o addirittura nessuna ‘ragione’”.
Per questo, il corretto esercizio della libertà religiosa non può prescindere dalla mutua interazione tra ragione e fede.
L’editto di Milano, in fondo, riafferma un principio antico, ovvero che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte di qualsivoglia potere. “Tale è dunque la radice della libertà religiosa – dice Mamberti – ed è anche per questa ragione che essa costituisce un “problema” nei dibattiti internazionali, dove è frequentemente ridotta all’analisi di singole casistiche contingenti, piuttosto che essere trattata alla pari delle altre libertà fondamentali”.
Mamberti ha anche sottolineato che la visione cristiana “non è dominata dalla paura, bensì dalla gioia della verità che rende liberi (cfr. Gv 8, 32). È nella verità vista non tanto quanto assoluto che già possediamo, quanto piuttosto come possibile oggetto di conoscenza razionale e relazionale9 che troviamo la possibilità di un sano esercizio della libertà. Ed è proprio in tale nesso che troviamo l’autentica dignità della persona umana”.
La linea di Parolin, nel suo primo discorso con gli ambasciatori, è stata forse quella di concentrarsi direttamente sulla prima parte di questo concetto, sulla gioia del cristianesimo. Una gioia che presuppone la verità che ci rende liberi. Ma il concetto principale, più che la verità, sembra essere la fraternità, simboleggiata dalla cultura dell’incontro che Papa Francesco non manca mai di menzionare. Per questo, Papa Francesco ha voluto che il suo primo messaggio per la Giornata Mondiale della Pace fosse intitolato “Fraternità, fondamento e via della pace”.
Parolin ha iniziato il suo lavoro da segretario di Stato all’insegna della fraternità e della gioia. Sarà la gioia del Vangelo la linea guida della sua attività diplomatica? Oppure tornerà prepotentemente a farsi luce la gioia della verità, così come declinata dalla Santa Sede in tutti i consessi internazionali?