Re Carlo III viene a Roma nell’Anno Santo della Speranza che non delude per pregare insieme al Papa
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 17.10.2025 – Jan van Elzen] – I reali del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, il Re Carlo III e la Regina Camilla saranno in Visita di Stato in Vaticano il 23 ottobre 2025, nell’ambito dell’Anno Giubilare della Speranza che non delude, come aveva fatto la Regina Elisabetta per il Grande Giubileo dell’Anno Santo dell’Anno 2000.
L’arrivo dei sovrani britannici è previsto alle ore 10.45 al Cortile di San Damaso e alle ore 11.00 saranno ricevuti in Udienza da Papa Leone XIV.
Quindi, parteciperanno ad un incontro di preghiera ecumenica con il Santo Padre nella Cappella Sistina, per celebrare il lavoro verso l’unità e la cooperazione tra le diverse Chiese e comunità Cristiane. Seguirà in Sala Regia un evento dedicato alla cura del creato.
Nel pomeriggio il programma di Re Carlo II e la Regina Camilla prosegue alla Basilica Papale di San Paolo Fuori le Mura e al Pontificio Collegio Beda.
Al Re Carlo III sarà conferito il titolo di “Confratello Reale della Basilica e Abbazia di San Paolo fuori le Mura”, un riconoscimento importante per i rapporti tra la Chiesa di Roma e quella d’Inghilterra.
Buckingham Palace ha confermato che la visita sarà “storica” e legata al tema “Pellegrini di Speranza”, valorizzando anche il cammino fatto insieme sui temi dell’ecumenismo.
Durante la liturgia, saranno presenti cori sia inglesi che vaticani. Sarà cantato un inno di Sant’Ambrogio, nella traduzione di San John Henry Newman, che presto sarà proclamato Dottore della Chiesa.
Per l’occasione, è stato realizzato uno scanno con lo stemma di Re Carlo III e la frase “Ut unum sint”, segno della volontà di unità. Lo scanno resterà nella Basilica anche in futuro.
Re Carlo III sarà il primo sovrano britannico a pregare pubblicamente con il Papa dai tempi della Riforma anglicana di 500 anni fa. In un momento di grande importanza nelle relazioni tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa d’Inghilterra, di cui il Re è nominalmente capo.
Da Leone a Leone
Dal dominio alla comunione
di Don Mario Proietti
Già circolano malumori alla notizia della visita di Stato di Re Carlo III e della Regina Camilla al Papa, prevista per il 23 ottobre. Il programma parla di una visita storica, di un momento di preghiera nella Cappella Sistina, con la partecipazione dell’Arcivescovo di York, e che il Re d’Inghilterra riceverà il titolo di Royal Confrater presso la Basilica di San Paolo fuori le Mura. La cerimonia prevede una sedia decorata con lo stemma reale e con l’iscrizione Ut unum sint (Che siano una cosa sola), destinata a restare nella basilica come segno permanente per il sovrano e per i suoi successori. Il titolo verrà conferito dall’Arciprete, il Cardinale James Michael Harvey, e dall’Abate del complesso, con l’approvazione e beneplacito del Santo Padre.
L’incontro non avrà forma eucaristica, ma sarà una preghiera ecumenica dedicata alla custodia del Creato. Il testo scelto è un inno di Sant’Ambrogio, tradotto in inglese da San John Henry Newman, figura che unisce nella santità la tradizione latina e quella anglosassone. La guida spirituale dell’incontro sarà condivisa dal Papa e dall’Arcivescovo di York. L’assenza dell’Arcivescova di Canterbury conferisce all’evento un tono di equilibrio e di rispetto reciproco.
L’evento possiede un significato profondo. Il Papa, Pastore universale, incontra i rappresentanti di una nazione che conserva radici Cristiane solide e che porta nella memoria una lunga separazione da Roma. Il Re, capo della Chiesa Anglicana, partecipa a un momento che unisce dimensione diplomatica e spirituale. L’intento è promuovere un cammino di amicizia e di dialogo nella verità.
A mio avviso, il titolo di Royal Confrater che verrà conferito al Re rappresenta il punto più interessante. Questo gesto, che molti leggono come curiosità diplomatica, esprime invece un linguaggio teologico. La Chiesa comunica la sua Fede anche attraverso i segni, e ogni gesto liturgico o simbolico riflette la sua sapienza vivente.
Mi affascina l’idea che questo “premio” si potrebbe configurare come una correzione silenziosa della storia. Il suo valore è spirituale, non politico. Ritengo che chi l’ha pensata, dovrebbe essere premiato perché è un modo elegante per riportare i Sovrani Inglesi nel solco della realtà teologica: nessun Re, nessuna Chiesa nazionale, può essere Defensor Fidei senza comunione con Roma. Il potere che un tempo si definì difensore della Fede riceve ora un titolo che lo colloca nella prospettiva della comunione.
Ora provo a spiegarmi. Il titolo di Defensor Fidei nacque nel 1521 per volontà di Papa Leone X, che volle riconoscere a Enrico VIII il merito di aver difeso i sacramenti contro le tesi di Lutero. In quell’epoca la Fede e il potere camminavano insieme, e il Re ricevette il titolo come segno di fedeltà alla verità cattolica. La storia prese poi un’altra direzione, e quel titolo divenne il simbolo di una fede nazionale separata da Roma. La religione si legò al trono e la verità divenne emblema politico.
Cinque secoli dopo, Leone XIV dona a quel titolo un significato nuovo. Il Papa chiama fratello colui che un tempo si proclamò difensore. L’autorità che un tempo custodiva la Fede come possesso ora la riconosce come dono. Il linguaggio del potere lascia spazio alla comunione. La Fede cresce nella carità e la verità fiorisce nella fraternità.
Il pensiero di San Tommaso illumina questo gesto. La verità vissuta nella carità genera unità, la verità posseduta senza amore genera orgoglio. Il Royal Confrater non si presenta come un difensore, ma come un compagno di cammino. La sua missione è testimoniare la fede nella verità e servirla con umiltà.
La Chiesa illumina la storia con la grazia. I titoli che in passato hanno espresso orgoglio umano diventano strumenti di riconciliazione quando sono ricondotti alla verità. Leone XIV riconduce la regalità alla misura evangelica e trasforma un’antica memoria di divisione in segno di fraternità. La fede vive quando è servita nella carità e si manifesta nella comunione.
La scelta della Basilica di San Paolo possiede un significato teologico preciso. In quel luogo riposa l’apostolo delle genti, annunciatore del Vangelo ai popoli. Paolo rappresenta l’apertura missionaria e la speranza della comunione. La Basilica di San Pietro custodisce la solidità della Cattolicità, quella di San Paolo apre la via dell’evangelizzazione. La cerimonia in San Paolo diventa così profezia: la fede non si difende, si annuncia; non si chiude, si dona.
Il titolo di Royal Confrater assume in questo contesto il valore di un invito. Al Re d’Inghilterra, erede di una frattura nata da un titolo pontificio, viene offerto un segno che apre alla comunione. Il Difensore della Fede del XVI secolo eresse un confine, l’erede del XXI secolo che riceve un compito. La fede trova la sua forza nella fraternità che costruisce ponti e nella carità che unisce.
Leone XIV, con questo gesto, manifesta la pedagogia del Vangelo. Il titolo di Royal Confrater diventa un atto di insegnamento spirituale. Ogni potere, davanti alla verità, trova la propria misura. La Chiesa orienta la corona al servizio e la verità al dono. La comunione diventa la forma più alta della forza. In questo segno risplende la logica del Sangue di Cristo, che redime, unisce e manifesta la verità nell’amore.
Nella Cappella Sistina, dove Michelangelo ha dipinto il giudizio che ricompone la storia, il Papa e il Re pregheranno insieme. Quel momento racconterà senza parole la pazienza di Dio, che trasforma la distanza in incontro. La monarchia che nacque da una ferita tornerà, per un istante, nell’abbraccio della Chiesa da cui proveniva. La grazia che guida la storia orienta sempre verso l’unità.
Ogni titolo umano trova il suo senso nella logica del servizio. Ogni potere, accostandosi all’altare, diventa creatura. La Chiesa accoglie e illumina, educa e ricompone. Il Papa che un tempo concesse un titolo al potere oggi ne offre uno alla comunione. Il trono che si credeva custode della verità si ritrova mendicante di comunione.
Forse il Re non comprenderà fino in fondo la portata del gesto, ma la Chiesa sì. Essa sa che ogni potere terreno, quando si accosta all’altare, torna creatura. E che ogni titolo umano, se vuole avere senso davanti a Dio, deve piegarsi alla logica del servizio.
Così, da Leone a Leone, la Chiesa non rivede la politica, e la teologia del potere. Non abolisce la distanza tra Roma e Canterbury, e la trasfigura in una chiamata alla conversione reciproca. Se Enrico VIII aveva cercato nella fede la giustificazione del dominio, Leone XIV vi riconduce il dominio alla misura della Fede.
Il trono che si credeva custode della verità si ritrova mendicante di comunione. E questo, a mio avviso, è davvero un atto della Provvidenza.



























