Alla scoperta della battaglia di Bauco e del Conte Émile-Théodule de Christen

Monumento
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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 08.10.2025 – Jan van Elzen] – Approfittando della visita in Italia, in occasione del giuramento delle Guardie Svizzere in Vaticano sabato 4 ottobre 2025, il Conte Hervé de Christen (Lyon, 18 giugno 1944), nipote del Colonello Conte Émile-Théodule de Christen, che servì negli Eserciti della Francia (1852-1860), del Regno delle Due Sicilie (1860) e dello Stato Pontificio (1862-1870), domenica 5 ottobre ha visitato i luoghi della battaglia di Bauco, con la vittoria del suo avo.

Era il 28 gennaio 1861 e l’annessione del Regno delle Due Sicilie non era ancora del tutto completata. Tuttavia, l’Esercito piemontese appariva più che mai determinato a stroncare la resistenza dei legittimisti, che ancora controllavano alcuni territori marginali, soprattutto negli Abruzzi e nella Terra di Lavoro, in quei posti nella Ciociaria, regione storico-geografica dell’odierne Lazio meridionale, corrispondente all’incirca all’odierna Provincia di Frosinone, ma senza confini ben definiti, al confine con lo Stato Pontificio. È in questo scenario che avvenne la battaglia di Bauco.

Nella vicenda erano coinvolti i vicini centri di Veroli e Monte San Giovanni Campano, oltre che il monastero cistercense di Casamari, dove le truppe legittimisti fedeli al Re Francesco II delle Due Sicilie soggiornarono nella notte che precedette la battaglia di Bauco.

Nel 1900 a Bauco fu eretto un monumento alla memoria dei caduti nella battaglia di Bauco del 28 gennaio 1861 (foto di copertina). Poi, il 26 agosto 1905 alcuni cittadini presentarono al Sindaco di Bauco la petizione perché si fosse proceduto a cambiare il nome del paese. La richiesta dei cittadini fu accolta e nel 1907 Bauco diventò Boville Ernica.

Il Conte Hervé de Christen si è recato in visita privata in Ciociaria, desideroso di conoscere i luoghi dove si svolsero le vicende militari del suo avo, il Colonello Conte Émile-Théodule de Christen, nato nel 1835 a Colmar, figlio cadetto di una nobile famiglia dell’Alsazia francese.

Il Conte Hervé de Christen è Cavaliere di Grazia e Devozione del Sovrano Militare Ordine di Malta, storico ed archivista dell’Associazione svizzera dell’Ordine di Malta. Discendente di diversi ufficiali Francesi e Svizzeri che combatterono durante la guerra d’indipendenza americana, presiede la sezione svizzera dei Figli della Rivoluzione americana.

Nella mattinata di domenica 5 ottobre 2025, accompagnato dalla Prof.ssa Maria Scerrato, che da anni conduce ricerche sul cosiddetto brigantaggio, il Conte Hervé de Christen ha visitato il borgo di Boville Ernica, dove ha depositato una corona di fiori sul monumento eretto alla memoria dai caduti nella battaglia di Bauco del 28 gennaio 1861.

Al termine della visita, la Prof.ssa Scerrato ha affermato: «Ci sono storie e trame impensabili, persone che si rincorrono seguendo le orme della storia, incontri che ti fanno pensare che le radici dell’Europa sono comuni, che le idee e gli ideali che ci animano sono condivisi. E poi ci sono occasioni e situazioni. Ed ecco, dopo aver dedicato qualche anno della mia vita alla ricerca e allo studio del Conte Émile-Théodule de Christen, si materializzano molte risposte a domande insolute nell’incontro a Boville Ernica con il Conte Herve de Christen».

Nel pomeriggio il Conte Hervé de Christen è stato accolto al monastero di Casamari dall’Abate Dom Loreto Maria Camilli, S.O.Cist., e dal Prof. Padre Pierdomenico Maria Volpi, S.O.Cist. Qui, in un breve cerimonia è stato omaggiato con una targa commemorativa della battaglia di Bauco.

Degna di nota storica è l’organizzazione della resistenza che il Colonello Conte Émile-Théodule de Christen mise in atto contro l’Esercito piemontese, con al culmine la battaglia di Bauco del 28 gennaio 1861. Lo scontro tra circa 400 Napolitani e circa 3.500 Piemontesi comandati dal Generale Maurizio Gerbaix de Sonnaz fu durissimo. Seppur di scarso rilievo per l’esito finale del conflitto, la battaglia di Bauco combattuta in territorio pontificio rimane negli annali perché è l’ultima, tra quelle combattute lontano da Gaeta, che volse in favore del Re Francesco II. Un evento che non modificò, né poteva farlo, le sorti di una guerra senza speranza, già persa in partenza.

Ad ogni modo fu anche a seguito della battaglia di Bauco, che i Piemontesi compresero finalmente lo scenario cui si trovavano di fronte. Non si trattava di eliminare una “sparuta accozzaglia di ladruncoli e di furfanti”, come si voleva far credere all’opinione pubblica, bensì di arginare quella che si era ormai trasformata in una vera e propria sollevazione popolare e che stava avvampando con particolare virulenza in tutta la parte meridionale della Penisola.

Alla fine, con l’impiego massiccio dell’Esercito e di drastiche misure legislative, il fuoco della rivolta su sopito. I costi, però, specie in termini di vite umane, sull’uno e sull’altro fronte, furono drammatici. Interi paesi finirono per essere svuotati, ma anche il cammino dei soldati Piemontesi nelle desolate lande del meridione fu costellato di croci e di cimiteri. L’esercito Piemontese, in quel lungo decennio, subì più perdite di tutte quelle fatte registrare nelle guerre che portarono all’unità d’Italia messe assieme.

Quando il Regno delle Due Sicilie inevitabilmente cadde, de Christen si recò a Napoli, per prendere parte alla guerriglia borbonica, sviluppatasi nel cosiddetto brigantaggio postunitario. Ma lì fu arrestato e imprigionato nel carcere di Santa Maria Apparente. Al processo fu definitivamente condannato a 10 anni di galera ai lavori forzati, destinato prima al bagno penale di Nisida, poi al forte di Sant’Elmo ed infine al carcere piemontese di Gavi. A seguito di pressioni internazionali non scontò tutta la pena e fu liberato dopo 2 anni.

Appena libero si recò a Roma per arruolarsi nell’Esercito Pontificio. Combatté nella battaglia di Mentana il 3 novembre 1867 ed alla Presa di Roma il 20 settembre 1870. Pochissimo tempo dopo morì, per una grave malattia, nel castello di Ronno, il 20 novembre 1870 a soli 35 anni. A quanto pare, era in viaggio verso l’Armata della Loira per sostenere l’Esercito francese nella guerra franco-prussiana, quando la malattia e la morte glielo impedirono: «La Francia è in pericolo: il Conte de Christen vola in suo aiuto. Gli viene offerto il grado di Colonnello nell’Armata d’Occidente, con comando di cinque battaglioni motorizzati. Egli vuole partire subito, benché inchiodato a un letto di dolore nel castello di Ronno» (Anna de Christen, Biographie sur le comte Théodule de Christen, 1871).

Scrive di lui l’amico Henri de Valori: «La prova fu lunga e dolorosa, una amicizia devota e Cristiana ha addolcito le sue sofferenze e la sua ultima ora. Se il Cristiano si rassegnava, il soldato si ribellava alla malattia, all’eco del cannone che risuonava laddove egli non poteva essere presente. Alcune migliaia di volontari non attendevano altro che un suo comando, un segno del vincitore di Bauco per accorrere sotto la sua bandiera».

Émile-Théodule de Christen
Un cavaliere al servizio
del Re delle Due Sicilie e del Papa

Vi sono personaggi poco o nulla conosciuti, o relegati a ruoli minori dalla narrazione storica, che invece meriterebbero ben altri onori, perché hanno speso la propria vita per ideali che travalicano l’importanza degli stessi avvenimenti di cui sono stati protagonisti. Come coloro che, in ogni tempo, combatterono guerre che non li avrebbero coinvolti se essi stessi non avessero scelto liberamente di mettere il proprio valore al servizio di una causa e di una fede.

Non di mercenari si tratta, naturalmente, ma di Cavalieri, perché proprio con la Cavalleria medioevale nasce la nobile figura del soldato che combatte, non per offendere o depredare, ma per difendere ed onorare il sacro giuramento fatto in nome della Giustizia.

Il Cavaliere doveva essere valoroso in battaglia e possedere coraggio ed abilità, ma doveva essere anche generoso, disinteressato, fedele e pio. Investito in nome di San Michele e San Giorgio, dopo una veglia d’armi trascorsa in preghiera, il Cavaliere combatteva ovunque, sotto diverse bandiere, perché il suo giuramento di fedeltà lo impegnava sì verso una terra ed un Re, ma soprattutto lo legava alla tradizione della Cristianità.

Lo spirito della Cavalleria si perpetuò nei secoli, animando quei volontari che impugnarono le armi, in tutti i tempi e i luoghi della storia, ogni volta che la rivoluzione imperversò, portando ingiustizia, sopruso e disordine.

L’invasione del Regno delle Due Sicilie fu uno di quei momenti, e anche allora si formarono interi corpi di volontari legittimisti, provenienti da ogni parte d’Europa e persino dagli Stati Uniti. Di tanti che combatterono al fianco dei soldati Napoletani, nelle fortezze del Regno e anche agli ordini diretti del Servo di Dio Re Francesco II di Borbone, non è rimasto neppure il ricordo del nome, ma il loro valore e il loro onore è testimoniato dalla vita, e spesso dalla morte, dei pochi che conosciamo.

Come il Colonello Conte Émile-Théodule de Christen. Dedicatosi, come d’uso, alla vita militare sin dalla giovane età, nel 1852 a 17 anni si arruolò nell’Esercito francese per la Guerra di Crimea (combattuto dal 4 ottobre 1853 al 1º febbraio 1856 fra l’Impero russo da un lato e un’alleanza composta da Impero ottomano, Francia, Gran Bretagna e Regno di Sardegna dall’altro, che ebbe origine da una disputa fra Russia e Francia sul controllo dei luoghi santi della Cristianità in territorio ottomano) e raggiunse il grado di colonnello a soli 25 anni. Congedato nel 1860, nell’aprile mise il proprio valore al servizio della causa legittimista. Cattolico, legittimista, contro-rivoluzionario e antimassone si recò a Roma, ubbidendo alla chiamata generale fatta da Papa Pio IX all’aristocrazia europea per costituire una struttura militare in difesa del potere temporale dello Stato Pontificio, che si trovava sotto la minaccia rivoluzionaria italiana.

Sebbene la sua originaria intenzione fosse quella di arruolarsi tra le file dell’Esercito pontificio, pochi mesi dopo, da vere Cavaliere in armi contro l’ingiustizia, decise di raggiungere il Re Francesco II di Borbone, che aveva lasciato Napoli per continuare nella fortezza di Gaeta la difesa del Regno delle Due Sicilie contro l’Esercito piemontese invasore. A Bauco con circa 400 uomini dell’Esercito delle Due Sicilie, il Colonello Conte Émile-Théodule de Christen sconfisse il Generale Maurizio Gerbaix de Sonnaz al comando di 3.500 uomini dell’Esercito piemontese.

La partenza per l’esilio di Francesco II non rappresentò per i Napoletani la fine della speranza nella libertà e l’indipendenza del Regno: si trattava di continuare a resistere, cambiando strategia. Anche de Christen, dunque, si recò a Napoli per prendere parte alla sollevazione che si progettava contro l’occupazione piemontese. Si finse Inglese, usando il passaporto di uno dei suoi amici, un Inglese stabilito in Francia, di nome William Lumley-Woodyear. Operò in clandestinità ma la manovra fu scoperta a causa di un delatore e nel settembre 1861 fu arrestato.

Nel suo Journal de ma captivité suivi du recit d’une campagne dans le Abruzzes par le comte de Christen (Diario della mia prigionia seguito dal resoconto di una campagna negli Abruzzi del Conte de Christen) pubblicato dall’Editore E. Dentu nel 1866), che ripercorre le tappe della sua prigionia, de Christen offre una vivace testimonianza della giustizia riservata ai Napoletani dopo l’unificazione d’Italia. Questo documento importante del periodo risorgimentale, offre una visione storica vista dalla parte di chi si opponeva all’egemonia dei liberal-massoni, annientatori della tradizione e del Cattolicesimo.

Scrive: ”Come soldato condussi alla pugna e qualche volta alla vittoria dei bravi contadini degli Abruzzi; come prigioniero passai lunghe ore nelle segrete. Ciò che mi fu dato di operare, ciò che mi è stato giocoforza soffrire, non era mio compito di ripetere, ma alcuni miei amici hanno domandato queste confidenze, e per corrispondere alle loro preghiere le feci di pubblica ragione. Vinto oggi, non avrò pè i miei vincitori amare parole, ma, un giorno noi ci ritroveremo faccia a faccia; poichè conservando in fondo all’anima tutte le mie convinzioni, attendo con fede l’ora della giustizia”.

Il Conte de Christen, prima di essere processato attese quasi un anno in carcere, condividendo la sorte dei centomila Napoletani arrestati in meno di un anno e mezzo, la maggior parte dei quali non ottenne mai un regolare processo e una condanna definitiva. Se regolari potevano dirsi i processi celebrati nei tribunali unitari, dopo l’epurazione dei ranghi della magistratura e l’insediamento di giudici graditi al nuovo regime.

Un esempio della correttezza procedurale usata è riportato nel diario di de Christen: durante l’istruttoria, un testimone oculare, chiamato ad identificarlo, sbagliò indicando il suo vicino di sedia; l’errore fu corretto dal magistrato in persona, che indicò al testimone colui che doveva essere accusato.

Non meno grottesco fu lo svolgimento del processo, nel corso del quale il Presidente permise al testimone d’accusa di modificare, durante il dibattimento, per ben quattro volte la propria deposizione, accettando per buone tutte le versioni fornite. Il giudice accettò anche, come prova della partecipazione alla congiura, un biglietto scritto in francese e opportunamente tradotto in italiano, con l’aggiunta di otto righe ex novo per renderlo più chiaro.

Se questo accadeva nel caso di un cittadino straniero tutelato, sia pure senza troppo impegno, dalla propria Ambasciata e dagli osservatori internazionali, possiamo immaginare cosa capitava ai soldati e ai comuni cittadini Napoletani che a centinaia di migliaia nel Regno – più di sedicimila nella sola Napoli – furono incarcerati senza la formulazione di una qualsiasi accusa. Effetto della tristissima tariffa del sangue, una sorta di prezzario in base al quale si pagavano le delazioni, vere o false che fossero, per la cattura di legittimisti e patrioti, classificati ovviamente come briganti. Il nome era stato attribuito dal popolo, perché l’esito dell’arresto era scontato: una relazione al Parlamento inglese valutò che furono 1.038 i prigionieri fucilati in meno di due anni dall’unificazione d’Italia, stando ai soli documenti ufficiali certamente lontani dalla realtà.

Molto ci sarebbe da dire sulle carceri post-unitarie basandosi su testimonianze dirette di osservatori inglesi o di appaltatori di fiducia delle autorità italiane. Ci basti la descrizione che de Christen riporta nel suo diario: le catene cingevano piedi e mani ed univano i prigionieri due a due; il cibo e lo stato igienico erano causa di continue malattie; le ferite da percosse e torture venivano lasciate incancrenire; detenuti politici e comuni vivevano in promiscuità; era impossibile comunicare con familiari o ambasciatori; la censura cancellava lettere e scritti.

Il nuovo regime aveva provveduto a nominare direttori delle carceri e capi delle guarnigioni compiacenti, molti dei quali provenivano dalle fila della camorra e della delinquenza e conoscevano quei luoghi per avervi già soggiornato da prigionieri per i loro crimini.

Per sua fortuna de Christen fu scarcerato dopo due anni di detenzione, grazie a pressioni internazionali alle quali il governo piemontese cedette proclamando un’amnistia.

Sorte ben diversa toccò alle migliaia di patrioti Napoletani che languivano nelle carceri del nord come Fenestrelle, morti di stenti e di maltrattamenti o rimasti per decine d’anni nelle galere italiane per aver commesso il grave reato di essere stati fedeli al proprio Re e al proprio Paese.

De Christen non smise di combattere la sua buona battaglia e, liberato nel dicembre del 1863, appena un mese dopo era a Roma per riprendere la lotta con il suo battaglione di volontari stranieri, in difesa del Papa e combatté contro Garibaldi (battaglia di Mentana, il 3 novembre 1867) e contro i Piemontesi (Presa di Roma, il 20 settembre 1870.

Nel suo diario scrisse: «Vinto oggi, non avrò per i miei vincitori amare parole; ma un giorno noi ci ritroveremo faccia a faccia; poiché, conservando in fondo all’anima tutte le mie convinzioni, attendo con fede invincibile l’ora della giustizia».

Indomito e fedele, in Conte de Christen incarnò fino all’ultimo l’autentico spirito della Cavalleria.

La figura romantica del Colonnello alsaziano si colloca tra le molte dei legittimisti stranieri che si posero al servizio di Francesco II, durante e dopo l’eroica resistenza di Gaeta. Costoro rappresentano una pagina inedita ed ancora tutta da scoprire della nostra storia.

De Christen è il combattente disinteressato e fedele che snuda la spada al solo scopo di difendere e servire la causa in cui crede. Giovane ed entusiasta, è sempre in prima linea e non si dà mai per vinto.

Ma de Christen, grazie a Dio, non vedrà mai il suo mondo definitivamente sconfitto, perché il 20 novembre 1870 a soli 35 anni, logorato da una vita spesa senza mai risparmiarsi, si spense per una grave malattia.

Il Colonnello Conte Émile-Théodule de Christen, un uomo, un soldato, una spada al servizio del Regno delle Due Sicilie e dello Stato Pontificio. Nella sua breve vita non si arrese mai.

Conte Hervé de Christen
Il Conte Hervé de Christen davanti al monumento ai caduti della battaglia di Bauco, posto all’ingresso del centro storico di Boville Ernica in piazzale Granatieri di Sardegna.

La battaglia di Bauco
28 gennaio 1861

Durante l’ultima fase dell’assedio alla fortezza di Gaeta da parte dell’esercito piemontese, diversi legittimisti Francesi, Spagnoli e Belgi, con in testa il Colonello Conte Émile-Théodule de Christen, offrirono i loro servigi al Re Francesco II delle Due Sicilie. De Christen propose al Re un piano strategico per alleggerire l’assedio di Gaeta e organizzare una guerriglia organizzata contro l’esercito invasore.

Molti abitanti del Regno delle Due Sicilie non accettarono l’occupazione e consideravano usurpatori gli uomini del Re di Sardegna. Perciò, si organizzavano in bande armate e si univano ai soldati di Re Francesco II per resistere ad un esercito che consideravano straniero a tutti gli effetti, anche perché gli invasori parlavano prevalentemente il francese, una lingua sconosciuta alla stragrande maggioranza della popolazione.

Fine gennaio 1861, l’annessione delle Due Sicilie è praticamente completata e l’Esercito piemontese appare più determinato a stroncare sacche della resistenza filo borbonica. Il Generale piemontese Maurizio Gerbaix de Sonnaz si sposta da Gaeta per reprimere gli ultimi focolai di resistenza, con il 3° Reggimento Granatieri che era sbarcato il 16 gennaio a Mola di Gaeta, una batteria d’artiglieria e uno squadrone di Cavalleria.

Nelle vicinanze di Sora, che faceva parte del Regno delle Due Sicilie, incappò nelle truppe filoborboniche comandate dal Colonnello alsaziano Conte Émile-Théodule de Christen, allora ventiseienne, e dal “Brigante” sorano, il Guardia Boschi Luigi Alonzi detto “Chiavone”, che al crepuscolo del Regno di Francesco II viene insignito dei gradi di generale di un esercito ormai in liquefazione. Per evitare lo scontro con i Piemontesi, Alonzi e de Christen si ritirano verso l’abbazia di Casamari, a ridosso del confine con lo Stato Pontificio, dove ricevono ospitalità. Una minaccia per il comando piemontese di Sora, non così distante da non poter veder piombare in breve lasso di tempo i filoborbonici a Sora e dintorni.

Alonzi e de Christen, all’avvicinarsi del nemico, il 22 gennaio 1861 partono in tutta fretta verso il torrente Amaseno e i monti Ernici, attestandosi a Bauco, un piccolo borgo su una collina, protetto, fin dall’alto Medio Evo, da una robusta cinta muraria. L’eccellente accoglienza dei Baucani e il senso di sicurezza che infonde la cittadina dà tranquillità ai filoborbonici.

Una terra di confine. Pur essendo possedimento pontificio, Bauco si trova a ridosso della linea di demarcazione, che fino al settembre 1870 ha separato il Regno delle Due Sicilie prima e quello d’Italia poi, dallo Stato Pontificio. Una striscia di territorio dove i filoborbonici godevano di una libertà di movimento pressoché assoluta. In caso di pericolo passavano facilmente da una parte all’altra lasciando gli inseguitori, costretti ad arrestarsi alla frontiera, con un palmo di naso. Cosa che dava molto fastidio ai Piemontesi i quali, ad onta dell’enorme dispiegamento di uomini e di mezzi, non riuscivano a venire a capo della rivolta.

Il Generale de Sonnaz, avendoli visti uscire dal monastero e non potendoli più raggiungere, si macchia di ignominia ordinando di vendicarsi con il saccheggio del luogo sacro. Un testimone oculare, il Gesuita Padre Antonio Onorati ha descritto la barbarie dei Piemontesi che in poche ore misero a ferro e fuoco il monastero.

Su fatti del 22 gennaio 1861, nelle Memorie di Don Alberico M. Lombardi, nell’archivio storico dell’abbazia di Casamari, leggiamo: «Arrivata dunque la truppa, comincio a sfasciare e porte e finestre, e svaligiare tutte le officine: Foresteria, Camere Abbaziali, Cucina Dispensa, Cancelleria, Forno, Portineria e infine la Sacrestia e, come se ciò non bastasse alla rapacità dei vandali Piemontesi, fu sfasciato il Ciborio: buttate via le Sacre Specie e presa la Sacre Pisside, rotte le torce e le lampade dell’altare Maggiore, ed insieme coi candelieri ne fecero un mucchio vicino una colonna per appiccarvi fuoco». «Bisogna aggiungere che i nostri bravi soldati, nell’incendiare la farmacia, presero un nostro confratello oblato, perché di recente vestito, lo legarono nella spezieria stessa e, dato fuoco alla medesima, lo lasciarono alla discrezione delle fiamme, se non che Egli prodigiosamente poté a poco a poco liberarsi dalla fiamme ed uscire intatto da quel pericolo».

Nel suo diario, de Christen annota: «Partiti i Piemontesi e domato l’incendio di Casamari, i Napoletani e i Briganti di Chiavone attraversano Campogentile e l’altura di Cologni e si dirigono verso un villaggio vicino sempre entro i confini pontifici, Bauco. Il paese è un fascio di case su una collina scoscesa da tutti i lati che ha un unico accesso praticabile da nord ed è circondato da mura medioevali in rovina. La colonna viene accolta festosamente dalla popolazione. I soldati prendono quartiere nel palazzo Filonardi [il più grande complesso architettonico sul punto più alto del paese]. De Christen, Caracciolo e Coataudon sono ospitati nel palazzo Marziale».

Il 23 gennaio 1861, il Priore di Bauco, Gaetano Vellucci, scrive al Delegato Apostolico di Frosinone: «Fin da ieri sera all’ora circa una della notte, giunse qui una quantità di soldati Napoletani, ossia di quelli che comandati dal Chiavone e assaliti dai Piemontesi in Casamari, si diressero a questa volta insieme ai monaci di quel Convento. I medesimi sono tuttora qui e sembra che non abbiano alcuna intenzione di andarsene e il paese intanto trovasi in agitazione per timore che venendo i contrarii possa nascere qualche conflitto».

In risposta alla lettera, il Delegato Apostolico comunica al Priore di Bauco che i Piemontesi sono rientrati nel Regno e che da lì a breve anche i Borbonici avrebbero lasciato Bauco. Intanto giunge la notizia che il Generale de Sonnaz ha di nuovo lasciato Sora e si appresta ad attaccare, pertanto il Tenente colonnello de Christen inizia a preparare le difese.

De Christen fa presidiare le tre porte della città, fa occupare tutte le posizioni del borgo, pone guarnigioni sulle torri delle mura. I soldati fidano sui propri fucili, ma lungo le linee di difesa ammucchiano pietre che, all’occorrenza potrebbero servire.

Il 24 gennaio 1861, il Priore di Bauco, Gaetano Vellucci, scrive al Delegato Apostolico di Frosinone: «Fino alle 18.30, momento in cui scrivo di nuovo, nulla di nuovo sulla partenza dei militi comandati dal suddetto Tenente Colonnello Conte de Christen, anzi sono aumentati di numero essendo sopraggiunto nella stessa notte Chiavone con i suoi».

il Delegato Apostolico di Frosinone risponde al Priore di Bauco di aver intervistato il Tenente Colonnello de Christen insieme ad una deputazione di più persone del Paese con i signori Curati. Il de Christen risponde e comunica il timore di essere assalito dai Piemontesi e chiede di poter restare per altri due o tre giorni, poi sarebbe ripartito.

All’alba del 28 gennaio 1861 innanzi a Bauco de Sonnaz schiera 3.500 uomini, fanti, cavalleggeri, artiglieri e guardie nazionali e circonda completamente le pendici del paese. Dagli spalti dei difensori giunge l’eco della concione di un ufficiale Piemontese che incita i soldati a uccidere quanti troveranno sui loro passi e a porre a sacco il paese. Su ordine del Generale de Sonnaz è proprio quell’ufficiale a guidare un battaglione all’attacco. Ma i Napoletani rispondono con un vigoroso fuoco di fucili ed i Piemontesi si ritirano precipitosamente. Il temerario che qualche istante prima aveva arringato la truppa giace morto sul terreno. De Sonnaz, da circa settecento metri, apre allora il fuoco contro il villaggio con i cannoni. Ad ogni scoppio risuona dagli spalti il grido di “Viva Francesco II”. De Christen, intanto, si rizza su un muraglione mentre Coataudon gli offre un sigaro. Una bomba che scoppia poco distante lo sbatte violentemente a terra. Il bombardamento dura dalle sei del mattino fin verso mezzogiorno.

Poi i Piemontesi tentano di nuovo l’assalto. Si muovono in tre colonne da tre diverse posizioni a passo di corsa gridando “Hurrà Savoia”. I Napoletani attendono in silenzio. Ma quando il nemico giunge sotto le mura, parte una scarica micidiale. L’attacco è particolarmente vigoroso presso il giardino Filonardi, dove sono attestati cento Napoletani comandati da Caracciolo. Ma dovunque i Piemontesi sono costretti a retrocedere lasciando il terreno coperto di cadaveri. Si raggruppano poi in un’unica massa e attaccano ancora concentrando l’azione dal lato del giardino. I contendenti si affrontano con le baionette e le casse dei fucili, i Napoletani hanno la meglio.

Allora i Piemontesi, vista l’impossibilità di sfondare in quel punto, cercano di scalare le mura. De Christen, per far economia di munizioni, ordina di non sparare e di tirare le pietre. Sotto la gragnola dei colpi i Piemontesi retrocedono in disordine. Trecento di essi restano intrappolati tra le mura e si arrendono. De Christen fa calare alcune scale e comincia a far salire i prigionieri verso il paese.

In quel momento arriva un parlamentare di de Sonnaz. Il nemico intende trattare. De Christen incontra de Sonnaz che, pur avendo subito il grave scacco, vorrebbe imporre condizioni di resa. L’Alsaziano replica di aver avuto fin allora il vantaggio delle armi. Alla fine si giunge ad un accomodamento accettato da entrambe le parti:

  1. Il Generale de Sonnaz sarebbe uscito subito con tutta la sua divisione dal territorio pontificio, dando la parola d’onore che non vi avrebbe mai più messo piede.
  2. De Christen si impegna personalmente a non prendere le armi né negli Abruzzi, né in Calabria fintanto che il Re delle Due Sicilie difende Gaeta, libero però di portarsi in armi in qualunque altra parte del Regno.
  3. La truppa napoletana ha facoltà di agire come meglio crede.

Commenterà più tardi de Christen: «Il nemico aveva perduto tra prigionieri, feriti e morti circa cinquecento uomini e una dozzina di ufficiali, tra cui tre superiori. Un tenente colonnello morì, come seppi poi, al convento di Casamari, a seguito delle ferite riportate. E così quattrocento Napoletani, senza artiglieria e male armati, avevano resistito contro più migliaia di Piemontesi comandati da uno dei loro più bravi generali».

De Christen libera i prigionieri Piemontesi e fa recapitare a de Sonnaz le sciabole degli ufficiali uccisi. Poi si dirige con la truppa verso il Regno.

Il 2 febbraio 1861, il Priore di Bauco, Gaetano Vellucci, scrive al Delegato Apostolico di Frosinone: «In seguito del fatale disastro avvenuto in Bauco il 28 del passato mese, come è noto alla S.V., il Comune ha dovuto incontrare diverse spese, le quali in complesso tra quelle fatte e le altre da farsi si è dovuto rimuovere l’ingombro dei sassi disposti per le barricate, sono stati seppelliti dei morti. Prego porre a mia disposizione la somma di venti scudi».

Il 4 febbraio 1861 il Delegato Pontificio di Frosinone risponde: «Penetrandomi del grave caso a cui è stato esposto codesto Paese, per attacco delle truppe Piemontesi autorizza a prelevarsi la somma di scudi venti».

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