“Prendi una lacrima, passala sul volto di chi ha mai pianto”. 66° Viaggio di solidarietà e di speranza della Fondazione Santina in Camerun – Terza parte

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 19.05.2025 – Vik van Brantegem] – Sette giorni dopo l’inizio della Sede Vacante, il 28 aprile 2025 Mons. Luigi (Don Gigi) Ginami, Presidente della Fondazione Santina e dell’Associazione Amici di Santina Zucchinelli, ha iniziato il 66° Viaggio di solidarietà e di speranza in Camerun dal tema Prendi una lacrima, passala sul volto di chi ha mai pianto, insieme a Padre Danilo Fenaroli, missionario bergamasco del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere). Hanno terminato il viaggio il 9 maggio 2025, il giorno dopo il Conclave che ha eletto il nuovo Romano Pontefice, Papa Leone XIV.
Alla presa con questi eventi, non ho potuto dare la consueta attenzione a questo viaggio in tempo reale. Quindi, ci ritorno in quattro puntate, iniziando il 17 maggio con il Report che Don Gigi ha scritto appena arrivato a Yaoundé in Camerun. Ieri ho riportato il Report della festa di inaugurazione di un nuovo pozzo a Gazad. Padre Danilo ha confessato a Don Gigi, che una festa così per inaugurare un pozzo di acqua non l’aveva mai vista. Oggi proseguo con la testimonianza di Padre Danilo Fenaroli e domani seguirà la Prefazione dell’Arcivescovo Leopoldo Girelli, Nunzio Apostolico in India, al libretto Danilo, Camerun #VoltiDiSperanza N. 52.
Segue dalla Prima parte [QUI] e dalla Seconda parte [QUI]
La testimonianza per Don Gigi
di Padre Danilo Fenaroli
Sono entrato in seminario dopo la scuola elementare. Se ci penso non ho avuto nessuna visione, nessuna cosa in particolare. È vero andavo spesso in chiesa perché ero chierichetto, ma soprattutto ero sempre in oratorio per giocare. Ho scavalcato più volte il cancello di casa, che mia mamma chiudeva perché prima dovevo fare i compiti, ma a quell’età la mia priorità era andare all’oratorio per giocare. Ricordo che mia mamma mi raccontava che un tardo pomeriggio non ero rientrato a casa ed erano molto preoccupati. Mi hanno cercato un po’ dappertutto e finalmente mi hanno trovato in mezzo al campo sportivo che giocavo da solo (avevo solo 4 anni). La mia vocazione, se si può dire così, è nata in oratorio, e in particolare osservando il mio curato. Volevo fare come lui, che era spesso con noi, ci dava il pallone per giocare (a quei tempi avere un pallone era un lusso) e si preoccupava di mandarci a casa a una certa ora. Una cosa era chiara: volevo essere come lui.
Gli anni di seminario sono stati molto belli: si studiava, si pregava e si giocava. Al liceo il seminario diocesano mi stava un po’ stretto e mi attirava sempre di più l’idea di farmi missionario. Nel frattempo ho conosciuto qualche missionario del PIME e ho deciso di lasciare il seminario vescovile di Bergamo per iniziare un nuovo cammino con il PIME.
Finalmente missionario il 14 giugno 1986, ricevuta la destinazione, sono andato a Parigi per lo studio della lingua francese e sono partito per la Costa d’Avorio, dove non mi è stato possibile accostarmi al mondo della disabilità, e lì ho trascorso tre anni.
Dietro il suggerimento del vicario generale del PIME, sono rientrato in Italia e ho frequentato un corso di pastorale della sanità al “Camillianum”. Contemporaneamente ho preso contatti con la Comunità di Capodarco di Roma, per la quale lavoravo in una cooperativa di soli disabili, in modo da fare esperienza sul campo. Ricordo ancora le parole del fondatore di Capodarco, Don Franco Monterubbianesi, che conosceva la mia difficoltà incontrata in Costa d’Avorio: “Danilo, se vuoi lavorare e dedicare tutta la vita alle persone non considerate, devi essere pronto a soffrire, perché spesso capita di non essere compresi”.
Dopo la Costa d’Avorio ho ricevuto una nuova destinazione: nel 1990 sono partito per l’Estremo Nord del Camerun, una zona pre-saheliana molto povera: piove poco e i raccolti sono scarsi, ci sono poche strutture (scuole e dispensari) e c’è ancora un basso tasso di scolarizzazione. In questi anni si è aggiunta la presenza, nella Regione, della setta di Boko-Haram, con continue violenze e soprusi che hanno causato numerosi spostamenti interni al Paese rendendo faticoso lo sviluppo di questa Regione.
Sono stato nominato parroco della parrocchia di Zouzoui, che ha 23 villaggi con circa 30.000 abitanti, e ho lavorato nella pastorale ordinaria. Questo mi ha permesso di conoscere meglio il contesto dove mi trovavo con tutte le varie problematiche legate al territorio.
Intanto continuavo a coltivare il sogno di dedicarmi a quelle persone considerate più vulnerabili. I primi passi sono stati quelli verso i disabili mentali, più emarginati, ma senza limitarmi a loro: avrei rischiato di creare un ghetto. Da subito, insieme ad una giovane coppia dell’ALP (Aldo e Simona Parise), abbiamo aperto i laboratori per la formazione professionale dei giovani e dei disabili fisici. È in questo contesto che è nata la Fondazione Betlemme, che spiegherò brevemente dopo. Mi piace dire che la Fondazione Betlemme è nata prima nel mio cuore, e mi spiego:
- Fin dalla mia infanzia sono stato abituato a giocare e a frequentare bambini caratteriali con i quali giocavo al pallone e bambini con problemi fisici e mentali. E mi chiedevo perché loro non potessero camminare e tantomeno giocare al pallone.
- Il contatto con loro è stato facilitato perché mio papà aveva un terreno (vigneto, oliveto e frutteto) che confinava con una struttura diocesana chiamata “l’Angelo Custode” che accoglieva ogni tipo di bambino in difficoltà. Ho visto più volte mio papà dare a loro i primi frutti del raccolto.
- In famiglia ho una nipote di 44 anni che ha difficoltà di comportamento e di linguaggio: e questo mi ha fatto riflettere. Alla fine della teologia c’è sempre un lavoro da presentare (tesi) e come tema ho scelto: “L’handicappato nella comunità Cristiana”, un tema antropologico e fortemente teologico.
Sono arrivato in Camerun certamente per annunciare il Vangelo di Gesù, ma ho portato con me una sensibilità e una compassione abbastanza forte nei confronti di persone in difficoltà, le più vulnerabili, che per Gesù sono i privilegiati di Dio, la carne di Dio.
Una domanda che mi faccio spesso, che si trova in “Genesi”: che cosa hai fatto di tuo fratello? È una domanda che Dio fa a ciascuno di noi. Il contesto dell’Estremo Nord del Camerun mi ha aiutato molto a rafforzare lo sguardo privilegiato verso le persone vulnerabili, messe da parte, e come diceva spesso Papa Francesco, “le persone scartate”. Tante situazioni, incontri, mi hanno colpito e messo in crisi. Che cosa posso fare per loro?
- Ho trovato villaggi dove non c’era la scuola e neppure l’acqua.
- Ho visto bambini disabili mentali legati con la corda nel cortile della capanna e che dormivano con gli animali, bambini lasciati a loro stessi, adulti incatenati, ammalati che aspettavano di morire perché non avevano i soldi per potersi curare.
- Ho visto giovani spenti senza speranza.
Racconto brevemente due episodi che mi hanno sconvolto particolarmente:
1. In uno dei tanti incontri nei villaggi, ricordo che mentre si parlava e si discuteva per aprire una scuola, si sentiva da lontano il lamento di una donna e il pianto di un bambino. Alla fine dell’incontro ho chiesto di potermi avvicinare alla capanna semi-distrutta e ho visto una donna incatenata con il suo bambino. Il capo villaggio mi disse: “È matta! e siamo obbligati a tenerla incatenata”. Ho chiesto di liberarla e mi hanno dato il permesso, a condizione di portarla via con me. Ma le chiavi del lucchetto non si trovavano. Allora andai in parrocchia e presi il seghetto per tagliare la catena e liberarla. E la portai con me.
2. Un altro episodio: è un bambino che abitava vicino alla parrocchia. E una notte, più calda del solito, sono uscito per andare in veranda e me lo sono trovato lì che stava dormendo. Lui si svegliò e mi disse: “Non ho nessuno che mi vuole bene, mi fai da papà?” Quella notte ho fatto fatica ad addormentarmi e pensavo alle parole di quel bambino di otto anni!
Tutte queste situazioni, nel 1997, hanno fatto nascere la Fondazione Betlemme.
Mentre si costruivano le strutture, ricordo molto bene la domanda di un muratore: “Ma è il caso di costruire una struttura così bella per quelli che non capiscono niente?” Ricordo anche la risposta che ho dato: “Voglio costruire una cosa importante per le persone meno importanti”.
Betlemme significa “Casa del Pane”. Il Centro vuole essere una casa capace di accogliere coloro che sono messi da parte. Di abbracciare quanti hanno bisogno di essere protetti e considerati come uomini e donne, di recuperare la propria dignità.
Le persone più emarginate devono toccare con mano la misericordia di Dio e la buona notizia del Vangelo. Proprio perché sono escluse è essenziale che Qualcuno le metta al centro.
La nostra priorità è l’accoglienza, la protezione dei bambini più vulnerabili: anche loro sono l’immagine di Dio, anzi sono i preferiti.
Un’altra priorità sono i giovani: ne abbiamo formati a migliaia nei vari settori: taglio cucito, falegnameria, meccanica, saldatura, agricoltura, allevamento, ecc.
La Fondazione Betlemme ha un occhio molto attento alle popolazioni (centinaia di pozzi realizzati, un centinaio di aule, qualche dispensario, qualche chilometro di pista, elettrificazione nei villaggi).
Oggi il Centro è una realtà solida e strutturata, ma il cammino non è stato facile. C’era da lottare contro una mentalità consolidata (la disabilità è ancora percepita dai più come una “maledizione”, male che dall’esterno penetra nell’individuo sotto forma di spiriti maligni). Ricordo bene che le prime ragazze che venivano a lavorare con noi, piangevano perché dicevano che lavorando con bambini disabili avrebbero avuto figli handicappati. I primissimi anni per sfatare quest’idea di mentalità sbagliata, ho messo tre insegnanti disabili fisici a insegnare nelle scuole pubbliche. La cosa più bella è stata vedere come piano piano si è realizzata l’integrazione di queste persone meno fortunate. I giovani qui sono educati a guardare la disabilità con un altro sguardo.
Oggi la Fondazione Betlemme è gestita da due famiglie religiose: PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) e SOdC (Silenziosi Operai della Croce), insieme si condividono gioie, sofferenze e sfide. Penso di poter dire che la Fondazione Betlemme è una pagina aperta del Vangelo con luci ed ombre.
Padre Danilo Fenaroli
Prosegue nella Quarta e ultima parte [QUI].