Ritrovare il sacro. Lo stile, la serenità, lo spessore e il rispetto della dignità del suo ufficio di Papa Leone XIV

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 16.05.2025 – Vik van Brantegem] – Si è notato da subito, lo stile delicato e lo spessore umano, culturale ed intellettuale di Papa Leone XIV. Nel rifiutare a fare dei selfie ci trasmette un invito alla riaffermazione del senso del sacro e alla riflessione dell’importanza del suo ruolo come leader religioso e spirituale. Il gesto si può leggere come un segno di sobrietà e l’affermazione della centralità della fede e della spiritualità profonda, piuttosto che della popolarità e del culto dell’immagine. Inoltre, Papa Leone XIV ha scelto di mantenere attivo la sua presenza sui social media, non come è un personaggio pubblico come gli altri o come una star dei social media, ma con messaggi dedicati alla promozione della fede e della spiritualità.
Su questi temi riportiamo due approfondimenti, che aiutano a capire la personalità di Papa Leone XIV, di Mario Anello su Il Messaggero («Ma il Papa è il Papa e lui ha adottato un modello di leadership mite e non smaccatamente carismatica, poco giudicante e tutta tendente alla serietà e alla serenità, e insieme però – visto che ogni Papa rappresenta il momento storico in corso, ed è il motivo per cui la Chiesa dura da sempre – non propagandisticamente anti-conformista, anzi rassicurante in una fase di disordine in cui tanta gente chiede rassicurazione o addirittura tradizione. Non è un anti-moderno Prevost, tutt’altro») e di d.I.A. su Silere non possum («Si tratta di una testimonianza controcorrente, di cui avevamo tanto bisogno, in favore di un mondo che ha sete di spiritualità autentica. Nel suo gesto silenzioso e gentile, Leone XIV ci richiama a puntare lo sguardo su Dio, il quale spesso è dimenticato in un mondo fatto di flash e frastuono»).

Fin dalla sua prima apparizione pubblica, l’8 maggio, Papa Leone XIV ha espresso una visione per il suo pontificato e per la Chiesa: una visione di pace e unità, incentrata su Gesù Cristo: «Sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato, spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo» (Papa Leone XIV – Santa Messa con il Collegio Cardinalizio, 9 maggio 2025 [QUI]).

Papa Leone XIV, il selfie rifiutato, la firma sulla palla da baseball, la sciarpa e la battuta su Sinner: la liturgia pop
Ma anche il no alla foto e le parole alte, tra citazioni e richiamo alla dignità
di Mario Ajello
Il Messaggero, 13 maggio 2025
Parla ai giornalisti [QUI] e non solo a loro, ma a tutti quelli – e sono sempre di più – che sentono il bisogno di una maggiore qualità e verità dell’informazione. E parlando di una comunicazione che deve liberarsi dei luoghi comuni e dei «linguaggi spesso ideologici e faziosi, senza amore», Leone XIV insiste su un aspetto che è formale ma soprattutto sostanziale: «È importante lo stile che adottate». Ma è proprio lo stile del nuovo Papa, o meglio il concetto di leadership e di autorità che ha deciso di rappresentare in un miscuglio di essere e tempo, quello che emerge nel suo debutto all’Aula Paolo VI – un pontefice a cui per un certo approccio culturale viene da associare quello attuale – di fronte a chi fa informazione e giornalismo.
Attraversa alla fine del discorso il corridoio centrale della sala, cioè si avvicina alla folla, ma non elargisce baci e abbracci il Papa, limitandosi a sfiorare moderatamente le braccia rivolte verso di lui. Evita un selfie che gli viene richiesto da qualcuno nelle prime file. Si fa fare una foto insieme a qualcuna vestita di bianco, notando con un sorriso «l’armonia cromatica» tra i rispettivi abiti. Accetta di mettersi al collo la sciarpa che gli viene offerta ma subito dopo la foto se ne libera, perché un Papa è un Papa. Insomma, si concede Leone ma a modo suo. Mostra di essere alla mano, ma dichiarando – nel suo discorso e nel suo atteggiamento – una postura che richiama la pedagogia, l’autorità e la dignità del ruolo in cui si mescolano tradizione e modernità (ovvero non spinge troppo sul pop ma neppure emana quella ieraticità che dopo Bergoglio sarebbe fuori tempo) e in cui convivono, secondo il motto del suo adorato Sant’Agostino, charitas e scientia, la carità e la conoscenza, l’equilibrio tra l’amore per il prossimo, la fraternità e la competenza.
La sintesi di tutto è l’autorevolezza e ogni sua sillaba di questa è impregnata. Anche quando scherza. Come ha fatto alla fine dell’incontro con i giornalisti. Quando una cronista le chiesto di organizzare per beneficenza una partita di tennis – grande passione sportiva di Prevost – e lui: «Certo va bene». «Io porto Agassi», ha insistito lei, ridendo. E lui: «Basta che non porti Sinner», giocando sul doppio senso sia perché l’italiano è il numero uno del mondo sia perché il suo cognome in inglese significa «peccatore».
Non perde mai di vista Leone XIV, anche nella sua esposizione pop, l’istituzione che rappresenta. Il suo è il logos (in principio erat verbum, ma anche in seguito), la dialettica, lo scambio, il capirsi e l’andare insieme per comprendersi ancora di più ma non s’intravede in lui alcuna tendenza a farsi follower. Semmai sembra credere nel suo compito di pastore che orienta e non solo accompagna o segue. Il suo stesso pacifismo, e ieri ha ribadito pace, pace, pace, non pare essere quello andante e arrendevole, e del resto un Agostiniano doc non può che pensare la pace e la guerra come il Vescovo di Ippona. Il quale – ma si potrebbero fare decine di citazioni – nel Contra Faustum Manichaeum, libro XXII, capitolo 74, scriveva: «Presso i veri adoratori di Dio son pacifiche anche le guerre, le quali non si fanno per cupidigia o per crudeltà ma per amore della pace, ossia per reprimere i malvagi e per e per soccorrere i buoni».
E comunque, questo Papa ironico e sagace – come s’è visto ieri quando ha messo la sua firma «Leone PP XIV» da tifoso chicagoano dei White Sox su una palla da baseball, o quando da giallorosso dice Forza Roma – si concede ma senza banalizzare l’Istituzione di cui è massimo rappresentante. Non può non essere un boomer il nuovo pontefice – è un figlio degli anni ‘50 – ed è connaturato ai boomer come lui lo stile di comando non ostentatamente gerarchico e il modello di autorità non platealmente verticistico (anche se molti boomer, allevati nel totalitarismo soprattutto di sinistra, si sono rivelati ego-riferiti nella gestione del potere) e più portato alla collegialità. Ma il Papa è il Papa e lui ha adottato un modello di leadership mite e non smaccatamente carismatica, poco giudicante e tutta tendente alla serietà e alla serenità, e insieme però – visto che ogni Papa rappresenta il momento storico in corso, ed è il motivo per cui la Chiesa dura da sempre – non propagandisticamente anti-conformista, anzi rassicurante in una fase di disordine in cui tanta gente chiede rassicurazione o addirittura tradizione. Non è un anti-moderno Prevost, tutt’altro.
Rispolvera a suo modo, e solo per certi aspetti, una classicità di cui si avverte il bisogno, impersona una storia bimillenaria che non accenna ad essere superata – come dimostra la partecipazione popolare fisica, televisiva e social alla morte di Francesco, all’evento del Conclave e alle prime uscite pubbliche di Leone – e insieme non può che essere l’incarnazione spirituale ma anche secolare di quel contesto di cui l’acclamatissimo filosofo francese Guy Debord nel 1967 diceva: «L’intera vita della società si annuncia come un accumulo di spettacoli». Ma lo spettacolo di Prevost – ecco la sorprendente bellezza dei nostri tempi – richiama più Sant’Agostino che il New Pope di Sorrentino.

Contro il culto dell’immagine: il gesto silenzioso e gentile di Leone XIV
di d.I.A.
Silere non possum, 15 maggio 2025
In questi primi, intensi giorni del pontificato di Leone XIV, un gesto tanto semplice quanto eloquente ha destato attenzione tra il clero e i fedeli: il nuovo Papa ha declinato, con il garbo e la delicatezza che lo contraddistinguono, la richiesta di scattare selfie. È accaduto con i giornalisti [QUI] ed anche con i rappresentanti delle Chiese Orientali [QUI] e in un’epoca in cui tutto sembra ridursi a immagine, immediatezza e visibilità, questo rifiuto suona come un invito potente alla riflessione. In alcune occasioni, il Pontefice ha fatto notare con semplicità che le telecamere già presenti sono più che sufficienti; in altre, ha preferito che fosse una terza persona a scattare la foto, evitando così la dinamica autoreferenziale del selfie.
Non si tratta del selfie in sé, ma di un invito alla riaffermazione del senso del sacro. Il Papa, nella tradizione Cattolica, non è un personaggio pubblico come gli altri. È il Vicario di Cristo in terra, come insegna il Concilio Vaticano I (1870), che nella Pastor aeternus afferma l’autorità spirituale unica del Papa quale successore di San Pietro. Egli non rappresenta sé stesso, ma una realtà trascendente, divina. Negli ultimi decenni si è spesso denunciata una progressiva desacralizzazione del Papato. Il gesto, in sé straordinario, della rinuncia di Benedetto XVI aveva già segnato un cambio di paradigma, aprendo la strada a una visione più funzionale e meno sacrale del ministero petrino. Ma è stato soprattutto il pontificato di Francesco a imprimere una svolta radicale: il Papato si è trasformato in una sorta di bene da esportazione, anche dal punto di vista dell’immagine pubblica. Si pensi, ad esempio, ai profitti generati dal Dicastero per la Comunicazione o al proliferare di figure ambigue — veri e propri mestieranti della fede — che si aggiravano attorno a Casa Santa Marta promettendo apparizioni papali, video, messaggi “da condividere”, fino a raggiungere persino il palco di Sanremo. L’immagine del Pontefice, negli ultimi anni, è stata progressivamente assimilata a quella di una figura mediatica: sorridente nei talk-show, disponibile a ogni fotografia, protagonista involontario di meme e contenuti virali. Non sono mancate situazioni imbarazzanti, in cui il Papa veniva ripreso con la talare macchiata, i capelli disordinati o in pose di evidente sofferenza, spesso del tutto inappropriate. Non stupisce che perfino Vatican News abbia continuato a pubblicare, senza alcun pudore, video in cui il Papa appariva visibilmente affaticato, persino dopo la sua morte.
Un’altra pratica che il Papa non apprezza è quella che era stata inaugurata da Stanisław Jan Dziwisz, ovvero quella dello “scambio dello zucchetto”. In più di una occasione ha già spiegato che preferisce non farlo, al massimo benedice quelli che gli vengono presentati. Anche dietro a questo gesto c’è un concetto che effettivamente è preoccupante, senza dimenticare che questi pezzi di stoffa diventano poi i “cimeli” da esibire nelle case dei vari “ragazzetti” che millantano credito e abbindolano presbiteri.
Il rischio di questa deriva? È quello di diluire l’autorità spirituale in una sorta di esposizione permanente, dove la familiarità si confonde con la banalizzazione e il carisma si appiattisce nella logica dello spettacolo. Lo stesso Joseph Ratzinger, poi Benedetto XVI, nell’Introduzione al Cristianesimo, metteva in guardia contro la tentazione di ridurre il sacro alla portata del profano. «Dove Dio diventa troppo accessibile, egli cessa di essere Dio», scriveva con la sua consueta profondità.
In questa luce si comprende il significato della scelta, tanto semplice quanto eloquente, compiuta da Papa Leone XIV di non concedersi ai selfie: un gesto profetico, che si colloca in continuità con quelle parole e quei segni che, già in questi primi giorni di pontificato, ci stanno facendo respirare un’aria nuova. È un invito a riscoprire il mistero, il silenzio, la venerazione — dimensioni che custodiscono la sacralità e proteggono l’incontro con Dio dal rischio della banalizzazione.
Un gesto emblematico di rispetto verso la missione del Pontefice è il bacio dell’anello del Pescatore, segno antico di obbedienza e devozione verso colui che guida la Chiesa universale. Questa pratica, oggi quasi scomparsa, è stata apertamente scoraggiata durante il pontificato di Francesco, dimenticando che quel gesto non era rivolto alla persona di Jorge Mario Bergoglio, ma al Successore di Pietro e all’ufficio che egli incarnava. Non si tratta di idolatria né di cieca sottomissione, ma di un segno sacramentale, attraverso il quale si rende onore al ministero spirituale e non alla persona che lo esercita. Il significato profondo di questo gesto affonda le sue radici nella Scrittura — dove l’anello è simbolo di autorità e missione (cfr. Genesi 41,42; Ester 8,2) — e nella tradizione della Chiesa medievale, quando l’anello del Papa serviva anche a sigillare i documenti ufficiali. È un segno visibile di una realtà invisibile: l’unione e la fedeltà alla Chiesa attraverso il suo Pastore universale.
San Giovanni Paolo II ricordava che “l’onore reso al Papa non è mai diretto all’uomo, ma a Cristo stesso che lo ha chiamato a essere suo rappresentante”. Il venir meno di questi segni esteriori – il bacio dell’anello, il chinarsi per la benedizione, il tono solenne – corrisponde spesso a un indebolimento della consapevolezza del divino nel quotidiano. È dunque il momento di chiederci: abbiamo dimenticato il sacro? E se sì, come possiamo ritrovarlo?
Il pontificato di Leone XIV sembra voler iniziare proprio da qui: dal ripristinare il senso del limite tra ciò che è umano e ciò che è divino, tra ciò che è visibile e ciò che deve restare mistero. «Sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato, spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo» ha detto Leone XIV nella Santa Messa con i cardinali [QUI].
Si tratta di una testimonianza controcorrente, di cui avevamo tanto bisogno, in favore di un mondo che ha sete di spiritualità autentica. Nel suo gesto silenzioso e gentile, Leone XIV ci richiama a puntare lo sguardo su Dio, il quale spesso è dimenticato in un mondo fatto di flash e frastuono.
Foto di copertina: foto ufficiale di Papa Leone XIV.