Prima maggio, il grande tema del lavoro per i vescovi e i pontefici

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“La Festa dei Lavoratori, in questo Anno giubilare, vuole offrire orizzonti di speranza agli uomini e alle donne del nostro tempo, consapevoli che ‘il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo’. La tutela, la difesa e l’impegno per la creazione di un lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, costituisce uno dei segni tangibili di speranza per i nostri fratelli, come papa Francesco ci ha indicato nella Bolla di indizione dell’Anno giubilare”: inizia così il messaggio, ‘Il lavoro, un’alleanza sociale generatrice di speranza’, dei vescovi italiani in occasione della festa del lavoro, che apre il giubileo dei lavoratori ‘pellegrini di speranza’ in programma a Roma fino a domenica 4 maggio, a cui segue quello degli imprenditori fino al 5 maggio.

Da questo incipit del messaggio abbiamo chiesto a don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio per i problemi sociali e del lavoro della Cei, di spiegarci in quale modo il lavoro può essere generatore di speranza: “Il lavoro è una delle esperienze umane più significative, ma mostra anche la sua fragilità. Tutti ci riconosciamo nel nostro lavoro, ci presentiamo spesso indicando la professione e, in genere, ognuno di noi si offende se viene accusato di non saper fare bene il proprio mestiere. Tuttavia, il lavoro può anche essere occasione di sfruttamento e schiavitù. Lo è stato nella storia e può esserlo in ogni epoca.

Si pensi oggi al caporalato, al lavoro nero, alla precarietà, agli stipendi inadeguati a una vita dignitosa, alle forme di controllo attraverso l’intelligenza artificiale. Il lavoro può generare speranza a due condizioni: che sappia valorizzare la persona, coinvolgendola in progetti creativi, e che produca un miglioramento del mondo. La produzione di armi distruttive, la crescita di inquinamento e radioattività, una finanza lontana dall’attività umana… non sono il segnale di un lavoro decente.

La speranza fiorisce quando il lavoro esprime comunità di intenti, miglioramento del mondo, solidarietà tra persone che vivono differenti responsabilità, sviluppo di un territorio e sostenibilità ecologica. La prova di verifica è la qualità relazionale di un luogo di lavoro. Senza sicurezza sul lavoro, ad esempio, manca una colonna portante della salvaguardia della dignità della persona che lavora. C’è strumentalizzazione. La media di due-tre morti al giorno è indice di disumanità”.

Nell’enciclica ‘Laborem exercens’ papa san Giovanni Paolo II ha scritto che il lavoro umano è la ‘chiave essenziale’: perché il lavoro umano è la ‘chiave essenziale’ della questione sociale?

“La chiave della questione sociale è sempre l’uomo. La sua grandezza emerge ogniqualvolta può sprigionare le proprie potenzialità. Ciò avviene non con la forza e il predominio, ma con la tenerezza. Il lavoro consente alle persone di crescere nella capacità di relazionarsi con il mondo, sia nel senso della fraternità sia nella promozione dell’ecologia integrale. Con un’espressione appropriata l’enciclica ‘Fratelli tutti’ al n^ 162 ha affermato: ‘Il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare, perché promuove il bene del popolo, è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze’.

Il risvolto soggettivo del lavoro ha bisogno di ridirsi in ogni epoca storica, se non vuole finire in materialismo che riduce l’uomo a mezzo di produzione e il lavoro a numeri di cose da realizzare. C’è qualcosa di unico in ogni persona che lavora. Non ci sono due uomini che lavorano allo stesso modo, pur facendo lo stesso mestiere; non ci sono due donne che educano con lo stesso esito, pur avendo entrambe lo stesso titolo di studio. Non esiste manualità ripetitiva: lo stile fa la differenza. L’intelligenza artigianale è infinitamente più ricca di quella artificiale!

L’uomo può davvero molto grazie al lavoro, sia in termini di pratica manuale sia a livello intellettuale. C’è anche una dimensione spirituale del lavoro che non va trascurata. Simone Weil ne parla in questi termini: ‘Mediante il lavoro l’uomo si fa materia come il Cristo nell’Eucaristia. Il lavoro è come una morte’.

Chi non ha sperimentato la fatica del lavoro? Lo sfinimento e la stanchezza sottomettono al tempo come la materia. Perdiamo qualcosa di nostro, in una sorta di svuotamento che anela alla vita piena. La risurrezione appare nella bellezza e unicità di ciò che si realizza e nell’acquisizione di abilità e competenze che danno senso alla fatica. Nel lavoro si rivela il mistero pasquale di morte e resurrezione. E, prima ancora, è profonda incarnazione nella storia”.

In quale modo si può sconfiggere il lavoro povero?

“Il lavoro povero si sconfigge a più livelli. C’è quello materiale che riguarda le politiche salariali: manca un adeguamento dei contratti allo standard di vita. A questo livello c’è anche chi ipotizza il salario minimo, che in alcuni Paesi è già presente, mentre nel dibattito italiano è quasi scandaloso parlarne. In un video inviato ai movimenti popolari il 16 ottobre 2021 papa Francesco ha invocato la possibilità di ‘un reddito minimo (l’RMU) o salario universale, affinché ogni persona in questo mondo possa accedere ai beni più elementari della vita.

E’ giusto lottare per una distribuzione umana di queste risorse. Ed è compito dei Governi stabilire schemi fiscali e redistributivi affinché la ricchezza di una parte sia condivisa con equità, senza che questo presupponga un peso insopportabile, soprattutto per la classe media (generalmente, quando ci sono questi conflitti, è quella che soffre di più). Non dimentichiamo che le grandi fortune di oggi sono frutto del lavoro, della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnica di migliaia di uomini e donne nel corso di generazioni’.

Il tema è connesso alle disuguaglianze sociali. Adriano Olivetti aveva inserito la saggia regola che nessun dirigente dovesse guadagnare più di dieci volte del salario di un operaio. Oggi non esiste limite, sia nel salario sia nelle pensioni. Ciò crea sacche di ingiustizia. Vi sono manager che percepiscono stipendi molto elevati e lavoratori che non arrivano alla fine del mese, se hanno famiglia a carico e un mutuo da pagare. Si tratta, inoltre, di mettere mano alla differenza retributiva tra uomini e donne.

In Italia sfiora il 20%, a sfavore del mondo femminile: nel settore immobiliare le donne arrivano a guadagnare il 40% in meno degli uomini, così come nelle attività professionali scientifiche e tecniche si fermano al 35% in meno. Nascere donna significa partire da condizioni di svantaggio conclamato. Anche sul lavoro giovanile pesano condizioni di disuguaglianza e ingiustizia. Tutti questi dati evidenziano un limite culturale importante. Il ‘lavoro povero’ deriva da una visione negativa del lavoro manuale, soprattutto se giovanile e femminile”.

In questo anno giubilare è possibile promuovere un lavoro generativo?

“Il compito di promuovere lavoro generativo dev’essere di ogni epoca. Tanto più in questo momento storico in cui il nostro Paese soffre di inverno demografico. La generatività in senso pieno chiede di affrontare seriamente alcune questioni irrisolte: il futuro demografico, la sostenibilità del sistema pensionistico e il lavoro giovanile. Il paradosso attuale è l’incapacità politica di abitare la complessità.

La generatività potrà essere garantita solo da tre impegni concomitanti: rimettere in moto meccanismi favorevoli alla natalità, trattenere i giovani tentati di cercare fortuna altrove nel mondo rendendo appetibile il mercato lavorativo italiano, offrire opportunità di integrazione agli stranieri che sbarcano sulle coste o arrivano con visti turistici. Solo tenendo insieme queste tre dimensioni la generatività può prendere il sopravvento e ridare speranza all’Italia. Ma finché marciamo nell’ideologia non c’è speranza!”

30 anni fa il ‘Progetto Policoro’: in quale modo esso può creare una ‘cultura’? 

“Il Progetto Policoro compie 30 anni. Nato nel 1995 da una felice intuizione di don Mario Operti ha fatto strada grazie all’intraprendenza di molte diocesi. Dal sud si è anche stabilito nel nord Italia, dando risposte diverse a domande differenti provenienti dai territori. L’idea di fondo è semplice ma potente. Il lavoro non si crea dal nulla ma dall’intraprendenza delle persone, facendo leva sulla loro capacità, intelligenza e voglia di comunità. Ne è derivata una cultura che vede lavoro e democrazia in stretta connessione. Si è inserito nella feconda tradizione dell’economia civile.

Se l’articolo 1 della Costituzione italiana ci ricorda che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro, è anche vero che una cura della comunità può opportunamente generare economia. Dunque, il lavoro produce cittadinanza e una comunità favorisce opportunità lavorative. Il pregio del Progetto Policoro è che ha formato persone ad essere animatori di comunità non solo nei tre anni di contratto, ma nella vita. Il protagonismo dei giovani è un investimento nel futuro. C’è bisogno di formazione, di animatori sensibili ai segni dei tempi e alle domande dei lavoratori. La cultura del lavoro è bene inestimabile. Crea le condizioni per un ricambio generazionale e per il futuro dei territori.

E’ curioso che il Progetto Policoro sia diventato una fucina di vocazioni. Luogo di discernimento esistenziale. Attraverso la formazione all’impresa e al lavoro, si sono originate anche vocazioni alla politica, alla famiglia, al presbiterato, alla vita religiosa e all’amministrazione. Il bello del Progetto ecclesiale è che non si è mai rassegnato a fotografare la realtà. Non ha tenuto i giovani in panchina nella vita. In campo c’è posto per tutti”.

(Tratto da Aci Stampa)

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