Le monache camaldolesi, dalla contemplazione alla carità

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Le Monache Camaldolesi professano la Regola di S. Benedetto con le Costituzioni proprie e si richiamano alla Tradizione di Camaldoli. Esse vivono in monasteri sui juris, che sono sotto la peculiare vigilanza del vescovo diocesano a norma del diritto comune (cfr. can. 615), o sotto quella del Priore Generale della Congregazione Camaldolese dell’Ordine S. Benedetto, se incorporati alla stessa (cfr. can. 614), secondo le condizioni indicate dalle presenti Costituzioni (cfr. can 9).

Nel monastero la monaca, unita nella carità alle sue sorelle e guidata secondo l’obbedienza dalla Regola e dallo spirito della nostra Tradizione, realizza incessantemente la propria vocazione. La vita è ispirata a semplicità, solitudine e fraternità.

Elemento caratteristico della Tradizione Camaldolese è l’unità della famiglia monastica nel triplice bene: cenobio – solitudine – evangelium paganorum.  

Le monache camaldolesi occupano una bella pagina nella storia della Congregazione Camaldolese. Fin dai primi tempi della Congregazione, San Romualdo – I’austero padre degli eremiti – ebbe seguaci non solo fra gli uomini, ma anche fra le donne. San Romualdo, pieno di zelo apostolico, ebbe quale unico scopo guadagnare tutti a Cristo con la sua parola ed il suo esempio. Egli non si ritrasse dalla società per fuggirla, ma per fini più nobili ed elevati, come testimonia la sua opera attiva e feconda, svoltasi durante la sua vita, e il bene spirituale di uomini e donne del suo tempo.

San Pier Damiani nella sua biografia del Santo, riferisce che, avendo San Romualdo deciso di costruire un monastero per monache “ancillarum Dei” in un luogo detto Valbuona, incontrò forte resistenza ed opposizione in alcuni dei suoi discepoli, mentre altri condividevano il suo progetto. Venute le parti dissidenti davanti a San Romualdo per esporre le proprie ragioni, il demonio, artefice di tale contrasto e nemico di quel progetto, incominciò a fare grande strepito e ad urlare. Separatisi, quindi, i monaci per far ritorno nelle loro celle, si sprigionò un forte vento ed una grande tempesta, che uno dei monaci placò all’istante con un segno di croce. Tutto ciò sarebbe accaduto nel 1023, ma anche prima del fatto menzionato, San Romualdo aveva fondato, probabilmente nel 1006, un monastero di monache. Il Beato Rodolfo, priore di Camaldoli, volle imitare anche in questo il suo maestro e si prodigò per guidare sulla via della santità anche le donne del suo tempo.

Il padre camaldolese don Parisio Ciampelli fa notare come i due monasteri sopra citati, benché appartengano alla Congregazione Camaldolese, per il fatto di essere antecedenti alla esistenza di una precisa regola eremitica scritta, non possono dirsi strettamente tali come molti altri riformati da San Romualdo, fra i quali quello antichissimo di Bagno di Romagna dove visse e morì santamente la Beata Giovanna. In passato un certo numero di monasteri camaldolesi erano doppi, ossia una parte era riservata alle monache ed un’altra ai monaci, a volte retti alternativamente da una abbadessa o da un priore.

La forma più tradizionale di presenza dei monaci e monache nel mondo è “l’ospitalità” che, secondo la S. Regola, tende non solo ad offrire sollievo materiale a coloro che visitano la comunità, ma anche a procurare loro nutrimento spirituale nella comunione di carità e nell’incontro con la Parola di Dio (cf. RB, LIII). Il fervore della carità rende le monache sollecite a comprendere le necessità spirituali degli ospiti, e le fa anche attente a cogliere con umiltà e reciproca edificazione le istanze che la Chiesa e il mondo pongono alla consacrazione monastica.

Nel monastero di S. Antonio abate a Roma, è presente una mensa per i poveri dal lunedì al sabato dalle ore 13.30 alle ore 14.30.

La pratica effettiva della povertà evangelica a livello individuale e comunitario è, nel nostro tempo, una delle testimonianze più efficaci che il mondo attende dai seguaci di Cristo (PC 13; LG 44-46). Per essere in armonia con queste esigenze dell’annuncio del Vangelo, suscitate dallo Spirito Santo con rinnovato vigore nel cuore della Chiesa e degli uomini tutti, le comunità monastiche, coerentemente al loro impegno di ricerca di Dio (RB LVIII) e di segno della speranza cristiana (RB, IV, GS 38), devono evitare il possesso e l’accumulo di proprietà e capitali che non siano veramente necessari ai loro reali bisogni.

Nel capitolo 33 della Regola è ben chiarito che tipo di relazione deve intercorrere tra il monaco e i beni materiali, ovvero che tutto sia comune a tutti come era nella prima comunità cristiana: Tutto quello che avevano lo mettevano insieme; e che nessuno dica o presuma che una cosa sia sua come sta scritto: Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune (At 4,32). Ecco, allora, che la povertà diventa gratuità: il non possedere egoisticamente una cosa permette di rivalutare l’oggetto stesso, di ringraziare dei doni ricevuti dalla gratuità degli altri,  da ciò che offre una comunità, consentendo un vero e proprio scambio – “circolo di doni” fra le persone. Mettere in comune è un vero atto di carità reciproca fra gli uomini.

 

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