Attende Domine et miserere, quia peccavimus tibi

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 11.04.2025 – Aurelio Porfiri] – Il 25 gennaio 1959 il Papa Giovanni XXIII pronunciava queste parole:
«Venerabili Fratelli e Diletti Figli Nostri! Pronunciamo innanzi a voi, certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito, il nome e la proposta della duplice celebrazione: di un Sinodo Diocesano per l’Urbe, e di un Concilio Ecumenico per la Chiesa universale».
Era l’annuncio di quello che sarà il Concilio Vaticano II. Quel giorno si festeggiava la conversione di San Paolo e il Pontefice aveva chiesto al Maestro di cappella, Domenico Bartolucci, un mottetto dal tono penitenziale. Lo stesso Maestro lo ricorda in un’intervista del 2010 a Paolo Mattei:
«Monsignor Capovilla mi suggeriva i desideri di Papa Roncalli, e componevo messe, offertori e mottetti per le liturgie da lui presiedute. Scrivevo in continuazione, anche per ricorrenze particolari: ricordo il Tu es Petrus per l’incoronazone di Papa Giovanni, l’Attende Domine, quando, nel 1959, lo stesso Pontefice annunciò la convocazione del Concilio, la Missa pro defunctis per i funerali sia di Pio XII che di Giovanni XXIII».
Ecco, in questa occasione appunto il Maestro compose Attende Domine, per soprano solista e coro a 5 voci a cappella. Uno dei mottetti più belli del celebre compositore basato sulla melodia del canto gregoriano.
Il canto dell’Attende Domine è uno dei più popolari del repertorio gregoriano, anche grazie alle molte versioni in lingue vernacolari degli ultimi decenni. Sembra l’origine sia nel decimo secolo, nel repertorio mozarabico, dell’area ispanica anche se l’attuale configurazione potrebbe essere stata data nel diciannovesimo secolo in Francia. Nel canto si riconosce il nostro stato di peccatori ma anche la grande misericordia di Dio.
In una traduzione non letterale dei versi ma abbastanza fedele (ad opera della Conferenza Episcopale Italiana) leggiamo:
«A te, Signore, che ci hai redento, i nostri occhi solleviamo in pianto; ascolta, o Cristo, l’umile lamento. Figlio di Dio, capo della Chiesa, tu sei la via, sei la porta al cielo, con il tuo sangue lava i nostri cuori. Tu sei grandezza, assoluto amore; noi siamo terra che tu hai plasmato: in noi ricrea la tua somiglianza. Ti confessiamo d’essere infedeli, ma il nostro cuore s’apre a te sincero; tu, Redentore, guardalo e perdona. Ti sei vestito del peccato nostro, ti sei offerto come puro Agnello: ci hai redenti, non lasciarci, o Cristo».
Nel testo è evidente la filiazione della Creatura verso il Creatore, il riconoscere l’assoluta dipendenza in ordine alla salvezza.
Il mottetto di Domenico Bartolucci è un capolavoro assoluto. Riesce ad usare la tematica gregoriana e a ricrearla polifonicamente con l’uso del soprano solista (che era un bambino nella Cappella Sistina, non una donna) che specialmente nell’ultima ripetizione del ritornello conferisce un sapore di poesia liturgica inarrivabile.
Questo ci ricorda il grande insegnamento di San Pio X nel suo Motu proprio del 1903:
«Il canto gregoriano fu sempre considerato come il supremo modello della musica sacra, potendosi stabilire con ogni ragione la seguente legge generale: tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto è meno degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme. L’antico canto gregoriano tradizionale dovrà dunque restituirsi largamente nelle funzioni del culto, tenendosi da tutti per fermo, che una funzione ecclesiastica nulla perde della sua solennità, quando pure non venga accompagnata da altra musica che da questo Soltanto. In particolare si procuri di restituire il canto gregoriano nell’uso del popolo, affinché i fedeli prendano di nuovo parte più attiva all’officiatura ecclesiastica, come anticamente solevasi».
In questo uso del canto gregoriano il Maestro Bartolucci fu insuperabile, sulla scia dei grandi maestri del Rinascimento. Una vera e propria nuova creazione delle melodie che rimangono le stesse ma da monodiche divengono polifoniche. Il canto di cui abbiamo parlato è una meditazione stupenda sul rapporto tra la creatura e Dio, in un tempo in cui l’uomo a volte osa innalzarsi fino all’altezza del suo Creatore e, come Icaro, infallibilmente cade.
Questa riflessione è stata pubblicata dall’autore sul suo sito Liturgia e musica sacra [QUI].
Attende Domine et miserere,
quia peccavimus tibi.
Ad te Rex summe, omnium Redemptor
oculos nostros sublevamus flentes:
exaudi, Christe, supplicantum preces.
Dextera, Patris, lapis angularis,
via salutis, janua coelestis,
ablue nostri maculas delicti.
Rogamus, Deus, tuam majestatem:
auribus sacris gemitus exaudi:
crimina nostra placidus indulge.
Tibi fatemur crimina admissa:
contrito corde pandimus occulta:
tua, Redemptor, pietas ignoscat.
Innocens captus, nec repugnans ductus,
testibus falsis pro impiis damnatus:
quos redemisti tu conserva, Christe.
Volgiti a noi, Signore, e abbi pietà, perché abbiamo peccato verso di te. A te, supremo Signore, salvatore di tutti, leviamo in pianto il nostro sguardo, ascolta, o Cristo, la preghiera di chi ti invoca. Espressione dell’infinito, fondamento di ogni costruzione, strada della salvezza, soglia della felicità cancella il buio del nostro male. Preghiamo, o Dio, la tua grandezza, accogli il gemito nostro nella tua sublimità; perdona longanime i nostri delitti. Riconosciamo davanti a te i nostri errori; ciò che è nascosto in noi, con dolore lo confessiamo; o Redentore, la tua pietà ci perdoni. Tu, arrestato sebbene innocente, condannato senza ribellarti, ucciso per noi peccatori, salva coloro che hai redenti.
Foto di copertina: Beato Angelico: Crocifissione, 1423 circa, tempera su tavola, 64×49 cm, Metropolitan Museum of Art, New York.
Questa Crocifissione è una delle opere più drammatiche del Beato Angelico, e il particolare di maggior pathos è sicuramente lo svenimento della Vergine che viene vistosamente abbandonata dalle sue forze mentre le pie donne tentano di soccorrerla e un San Giovanni straziato dal dolore si volge in un ulteriore gesto di vivissima preoccupazione per le condizioni della Madonna. Intorno, diversi personaggi assistono all’evento in toni decisamente più tranquilli. Il Beato Angelico, memore di certa sontuosità tardogotica, si concede qualche decorazione che trasuda lusso, come quella della veste del personaggio sul cavallo all’estrema destra del dipinto. Non dimentichiamo che il Beato Angelico fu attratto dall’arte di Gentile da Fabriano.
Da Gentile da Fabriano deriva anche la posa della pia donna che si china sopra al gruppo delle altre due che assistono la Madonna: è infatti identica a quella del personaggio che, nell’Adorazione dei Magi di Gentile oggi conservata agli Uffizi, toglie gli speroni al più giovane dei re magi.
La composizione del Beato Angelico si distingue anche per un certo grado di realismo, evidente soprattutto nei personaggi di contorno e nelle loro espressioni decisamente naturalistiche per il tempo. Anche il Cristo è già pienamente rinascimentale poiché presenta notevoli similitudini con il Crocifisso di Filippo Brunelleschi in Santa Maria Novella.
L’opera originariamente faceva parte, con ogni probabilità, di una struttura più grande, forse un trittico o un polittico (Finestre sull’Arte).