«La libertà esiste, se esistono uomini liberi; muore se gli uomini hanno l’animo di servi». «Non è la libertà che manca; mancano gli uomini liberi»

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 03.04.2025 – Jan van Elzen] – Riportiamo dalle Lezioni di politica sociale di Luigi Enaudi, scritte tra Basilea, Ginevra e Losanna da fine settembre 1943 al 10 dicembre 1944, i paragrafi 147-150, pagine 238-244, della parte terza Concetto e limiti della uguaglianza nei punti di partenza. La parte terza contiene la materia delle prime lezioni che Enaudi si riprometteva di tenere nel semestre invernale del 1944 all’Università di Ginevra. Per cause di forza maggiore il corso non ebbe inizio e anche la stesura delle lezioni rimase interrotta. Scritte nel divampare della Seconda Guerra Mondiale, mentre l’Europa sembrava avviata verso un tragico destino, queste Lezioni di politica sociale vanno considerate ancora oggi un libro esemplare, per lo stile inimitabile e la capacità sorprendente nutrita di concretezza, buon senso e passione civile, di cogliere l’essenza dei problemi posti dalla modernità.
«Nella nostra lingua, pochi saggisti, e nessuno in materie economico-sociali, tengono testa a Luigi Einaudi e nelle Lezioni – come già era avvenuto per altri autori che scrissero di getto e in condizioni disagiate, con scarsi libri a disposizione e senz’altro ausilio che cultura, memoria e ingegno – il Nostro dà il meglio di sé. Einaudi fu un gigante del giornalismo, che dalle colonne del Corriere della Sera contribuii grandemente a formare quel poco di opinione pubblica civile di cui l’Italia riuscì a disporre: le doti del giornalista, dello scrittore, si rivelano appieno nelle Lezioni. (…) Einaudi scrive con incredibile ricchezza e precisione lessicale: mai parola è impropria o approssimativa, ma sempre quella esatta per significare la cosa, concreta o astratta che sia» (dall’Introduzione di Michele Salvati all’edizione del 2004).
La citazione di Luigi Enaudi; «La libertà esiste, se esistono uomini liberi; muore se gli uomini hanno l’animo di servi», si rispecchio in quanto affermato nella citazione di Leo Longanesi: «Non è la libertà che manca; mancano gli uomini liberi».
Luigi Enaudi (Carrù, 24 marzo 1874 – Roma, 30 ottobre 1961) è stato un politico, economista e giornalista, secondo Presidente della Repubblica Italiana (il primo a essere eletto dal Parlamento italiano). Fu membro dell’Assemblea Costituente. Intellettuale ed economista di fama mondiale.
Leo Longanesi (Bagnacavallo, 30 agosto 1905 – Milano, 27 settembre 1957), è stato un giornalista, scrittore, editore, pittore, disegnatore, caricaturista e aforista. Si cimentò nell’arte della scrittura, nella grafica, nella tipografia, nell’illustrazione, nel disegno caricaturale e nella pittura, lasciando sempre un’impronta originale e controcorrente. Fu fondatore e direttore di varie riviste come. Personalità insieme popolare e sofisticata, seppe fondere il gusto per la tradizione con un atteggiamento intellettuale anticonformista. Grande talent scout, fu il maître à penser di un’intera generazione di scrittori e giornalisti.
La società degli uomini liberi
di Luigi Enaudi
147. La società di uomini liberi è un fatto morale. Essa esiste anche nelle galere.
Quale è dunque la società, nella quale gli uomini si sentano veramente liberi e liberamente operino? La risposta è venuta da Socrate, è venuta da Cristo. Non dalla società la quale circonda l’uomo viene la libertà; ma dall’uomo stesso. L’uomo deve trovare in se stesso, nel suo animo, nella forza del suo carattere la libertà che va cercando. La libertà è spirito non è materia. Il prigioniero, il quale potrebbe acquistare la libertà se chiedesse grazia al tiranno e non la scrive perché non riconosce nel tiranno e nei suoi giudici la potestà di giudicarlo, è uomo libero. L’eretico, il quale potrebbe coll’abiura od anche solo colla dissimulazione, l’ebreo, il quale potrebbe, facendosi marrano, salvare la vita, ed invece confessa la sua fede e cammina diritto verso il rogo, è uomo libero. Il pensatore potrebbe dichiarare nel libro apertamente il suo pensiero, purché nella dedica, nella prefazione e nella chiusa avvertisse che i principi da lui esposti si muovono in un campo terreno ed astratto e non infirmano l’osservanza dovuta ai precetti della religione dominante od ai comandamenti della setta che è padrona dello stato. Se non scrive la dedica perché sente che il suo pensiero mina appunto quella religione o il potere di quella setta e non la scrive, pur sapendo di correre il rischio di prigionia o di morte, quegli è uomo libero.
148. La libertà può esistere nei conventi e nelle imprese comunistiche; ma può esistere anche, fuori degli uomini gregari, tra artigiani, capitani d’industria, agricoltori, professionisti, artisti.
La libertà, che è esigenza dello spirito, che è ideale e dovere morale, non abbisogna di istituzioni giuridiche che la sanciscono e la proteggono, non ha d’uopo di vivere in questa o quella specie di società politica, autoritaria o parlamentare, tirannica o democratica; di una particolare economia liberistica o di mercato ovvero comunistica o programmata. La libertà esiste, se esistono uomini liberi; muore se gli uomini hanno l’animo di servi. I fratelli che si riuniscono a vita religiosa, e rinunciando ai beni del mondo, mettono tutte le loro ricchezze in monte per sé e per i poveri, e conducono quella vita che al padre guardiano piace di ordinare e consumano quei cibi e vestono quei panni che sono ad essi distribuiti d’autorità, quei fratelli sono liberi nella società comunistica che essi ogni giorno consapevolmente vogliono e ricreano. Potrebbero uscire dal convento; ma poiché volontariamente vi rimangono, si riconosca che quella società comunistica è un frutto della libera determinazione. Quegli operai, i quali, volendo sottrarsi alle dipendenze di un imprenditore, hanno, con lunghi mesi di rinuncia, risparmiato inizialmente il fondo necessario ad acquistare badili e zappe e vanghe e carrette e cavalli ed a mantenere nell’attesa se stessi e la famiglia ed hanno costituito una cooperativa, inspirata al principio: tutto il prodotto del lavoro a chi lavora ed hanno, fattisi terrazzieri, assunto un appalto di lavoro e quel lavoro hanno compiuto a regola d’arte; ed avendolo meritato, hanno ottenuto il credito necessario ad allargar l’impresa; ma sempre perseverarono nel principio che tutti i nuovi lavoranti, dopo bastevole prova di onestà e di laboriosità, diventassero soci e sempre, tratti dal loro seno, ebbero capi pronti ad ordinarne la fatica, con remunerazione non diversamente misurata da quella dei gregari; quegli operai, anche essi, sono uomini liberi, sebbene ed appunto perché essi persistono nel condursi vicendevolmente secondo principî comunistici, conservando in comune gli strumenti della produzione e ripartendo tra i singoli soltanto i frutti del lavoro comune. Ma è anche libero l’artigiano, proprietario della bottega, del macchinario, degli utensili e delle scorte, il quale acquista sul mercato le materie prime, assolda, pagando il salario corrente, i garzoni di cui si aiuta e vende il prodotto direttamente alla clientela. Nessun cliente è costretto, dall’amicizia, dalla vicinanza, o da vincoli legali a servirsi di lui; nessun apprendista o garzone è legato, ognuno potendo offrire ad altri i propri servigi ed i più irrequieti si muovono infatti frequentemente dall’uno all’altro, né è grave la difficoltà per il giovane laborioso e di buona volontà, di mettere su bottega per proprio conto. L’artigiano trova libertà nella letizia del lavoro compiuto, nella soddisfazione di averlo condotto a termine a perfetta regola d’arte, nella meritata lode del cliente. In una economia di mercato, non programmata dall’alto, molti imprenditori ed operai, proprietari e contadini e professionisti sono uomini liberi. Forse non sanno di esserlo; ma di fatto sono. L’industriale, il quale è riuscito a produrre una data merce ad un costo minore dei concorrenti e ne ha cresciuto lo spaccio, con risparmio dei consumatori e vantaggio proprio, il quale, forse senza proposito deliberato, ha contribuito con la sua domanda e grazie all’incremento del prodotto, a migliorare il compenso pagato agli operai nella sua industria, sente di essere stato qualcheduno, sente di aver creato qualcosa che prima non esisteva. Se anche la sua creazione è effimera, ha recato, finché durò, vantaggio a qualcuno. L’orgoglio che egli sente, forse grossolano, forse oggetto di compassione per gli eredi di una secolare fine educazione, è orgoglio d’uomo, di uomo che volle e riuscì. I suoi sentimenti paiono terra terra; né egli innalza lo sguardo verso l’alto; ma senza il demone interiore che agitava il suo spirito, egli non avrebbe creato qualcosa. Il proprietario il quale, giunto verso la sera della vita, ricorda i lunghi decenni durante i quali egli ha rinunciato a godere il frutto della sua terra e col risparmio così compiuto, l’ha trasformata con strade nuove e case ricostruite e spianamenti ed impianti di frutteti o di vigneti o di oliveti o con opere di irrigazione, sicché dove viveva miseramente una famiglia, oggi due o tre famiglie traggono vita decorosa, sente, anch’egli, di aver creato qualcosa. Quelle case, quegli spianamenti, quegli alberi fruttiferi, quei campi fecondi sono cose materiali sì, ma sono creazioni del suo spirito, che volle quel risultato invece di altre cose materiali che avrebbe potuto godere lungo quel mezzo secolo: dal fumo delle sigarette, a cui rinunciò, all’eccitazione del gioco, dai viaggi con amici o famigliari ai pranzi in lieta compagnia, dalla frequenza a spettacoli agli sport invernali. La volontà sua libera decise altrimenti ed egli ora si compiace di avere fatto quell’uso della sua libertà. Così l’avvocato, ripensando la sera al lavoro della giornata trascorsa, ricorda di avere licenziato il cliente che gli faceva sperare forte lucro se avesse consentito a difendere una causa ingiusta e si compiace del buon consiglio, dato ad altro cliente con modico compenso, di transigere, a risparmio di spese forensi e giudiziarie, una lite pur fondata su sicure ragioni. Così il medico medita sulla diagnosi che gli fa sperare di ridonar presto la salute ad un ammalato od all’altra che gli ha fatto sconsigliare un intervento chirurgico, lucroso per lui ma inutile per il cliente, oramai condannato. La voce della coscienza gli dice: anche se non avrai coltivato, prolungandola innocuamente, la malattia dell’uno e sfruttato la speranza di salvezza dell’altro cliente, tu hai compiuto il tuo dovere. Hai usato della tua libertà per rinunciare al vantaggio che poteva venirti dal danno altrui; epperciò tu sei uomo libero.
149. I nemici della libertà possono esistere in tutti i tipi di società economiche.
Sì; in ogni tipo di società e di economia, l’uomo che ubbidisce alla voce della coscienza, è libero. La libertà individuale, dell’uomo consapevole, dell’uomo che sa di dovere ubbidire alla voce del dovere non dipende da fatti esteriori come l’organizzazione sociale e politica. Queste sono non la causa, ma il risultato della libertà o della sua mancanza. Se in una società esiste un bastevole numero di uomini veramente liberi, non importa quale sia la sua organizzazione economica sociale o politica. La lettera non potrà uccidere lo spirito. Una economia comandata o programmata dall’alto presuppone o cagiona od in ogni modo è inscindibilmente collegata con la tirannia dei pochi e la servitù dei più, se nei pochi e nei più manca il sentimento della libertà, se i pochi intendono giovarsi del potere per affermare la propria dominazione ed i più si acquetano al comando e perfezionano le qualità di intrigo di adulazione e di ubbidienza cieca che giovano a far ascendere a posti di comando. Ma se domini invece senso del dovere, coscienza civica, abnegazione individuale, rispetto alla persona altrui, potranno essere commessi errori, i risultati ottenuti potranno essere inferiori a quelli ideali sperati; ma quella sarà la società voluta dalla coscienza collettiva. E se così è, perché altri può asseverare non esistere libertà? è nemico di libertà tanto il legislatore il quale vieta al fratello di rinunciare al voto professato altra volta ed oggi non più rispondente alla coscienza, quanto quegli il quale espelle a forza i fratelli dal convento dove essi liberamente intendono rimanere. È nemico di libertà tanto il governante il quale usa la forza legale o morale per costringere l’uomo a lavorare nella fabbrica appartenente allo stato quanto quegli che, in una economia di mercato, vieti od impedisca, a chi vuole vivere comunisticamente, di costruire una impresa informata a criteri contrari alla proprietà individuale dei mezzi di produzione. Gli eretici hanno ragion di vivere in ogni tipo di società; sia che, in una economia di mercato, eretici siano coloro i quali volontariamente deliberano di mettere sforzi e risparmi in comune e ripartire il frutto del lavoro presente e di quello passato secondo la regola del bisogno od altra voluta dalla comunità, sia che, in una economia comunistica, eretici siano coloro i quali deliberano di non lavorare in comune e di ripartirsi tra loro i frutti dell’impresa individuale secondo le regole dello scambio in libera contrattazione. Dove gli ortodossi sono tali per comando dall’alto e gli eretici sono messi al bando dall’acqua e dal fuoco; dove è impossibile la fuga degli anacoreti nel deserto o nella foresta, ivi non è libertà, se non per i santi e gli eroi.
150. Della libertà desiderata dall’uomo comune e delle forze sociali contrarie alla tirannia.
Neghiamo forse così l’insegnamento il quale afferma il dominio dello spirito sulla materia, la indipendenza della libertà dalle istituzioni sociali e politiche ed ordina all’uomo: cerca la libertà in te stesso, nella tua volontà di essere libero? No. Accanto alla libertà dell’eroe che sfida la galera, del martire il quale confessa la fede in Cristo dinnanzi alle belve del circo, del pensatore, il quale, ignorando il tiranno e reputandolo non esistente, dichiara la verità senza preoccuparsi delle conseguenze di essa, vi ha invero la libertà dell’uomo, dell’insegnante, dell’artista, del contadino, del risparmiatore, del lavoratore, del giornalista, dell’amministratore pubblico, del cittadino comune, in genere, il quale vuole godere della libertà pratica, della libertà intesa e desiderata dalla maggior parte degli umani: quella di pensare ad alta voce, di scrivere e di pubblicare quel che ad ognuno capita di pensare e di voler scrivere senza essere guidato e diretto da una autorità superiore coattiva; di operare e lavorare e muoversi senza dovere obbedire ad altre regole se non quelle dichiarate in leggi scritte, deliberate da organi legislativi eletti secondo la volontà liberamente e segretamente manifestata da tutti gli uomini; di lodare biasimare, senza ingiuria o calunnia, legislatori e governanti senza tema di carcere, di multe o di confische; di tentare di cacciar di seggio il governo in carica se a taluno riesca di conquistare la maggioranza degli elettori o degli eletti; di rimanere al governo sinché non si sia cacciati via dalla maggioranza medesima degli elettori e degli eletti; di condurre la propria vita, da solo od associato ai propri compagni di lavoro, costruendo imprese individuali od associate o cooperative o comunistiche, entro limiti posti dalla legge esclusivamente allo scopo di impedire che ognuno danneggi l’uguale diritto altrui a condurre medesimamente la propria vita a proprio piacimento. L’uomo della strada, l’uomo comune, quando cerca di riassumere in poche parole quella che egli intende per libertà, è portato ad identificarla con uno stato di cose nel quale non esista il tiranno, il dittatore in tempo di pace, sia che il tiranno a sua volta ubbidisca alla volontà dei pochi sia che si faccia eco o sfrutti la volontà o gli oscuri desideri delle moltitudini. Egli sa che la mala pianta della tirannide, coll’accompagnamento necessario dello stato di polizia, della mancanza della indipendenza della magistratura, dello spionaggio universale e persino famigliare, della soppressione della libertà di stampa e della sostituzione ai giornali dell’unico bollettino, con titoli diversi, della voce del padrone, della riduzione ad uno solo dei partiti politici, delle elezioni plebiscitarie al 99% dei sì, prospera volentieri in un dato clima economico e preferisce perciò una struttura della società nella quale al sorgere del tiranno siano posti argini variamente efficaci di forze sociali avverse per indole propria alla tirannia. Egli sa che la tirannia è vicina quando esista una disparità notevole nelle fortune e nei redditi dei cittadini, sicché accanto a pochi ricchissimi si osservino moltitudini di nullatenenti e non esista un numeroso e prospero ceto medio; sì che il tiranno può venir fuori sia dai pochi desiderosi di disporre di uno strumento della propria dominazione economica, sia dai molti ai quali il demagogo ambizioso di conquistare il potere assoluto prometta il saccheggio delle ricchezze dei pochi. Egli sa che la tirannia è vicina ed anzi è già quasi in atto quando lo stato abbia cresciuto siffattamente i suoi compiti che troppa parte della popolazione attenda i mezzi di esistenza da un pubblico impiego in una delle tradizionali pubbliche amministrazioni ovvero in qualcuna delle nuove gestioni industriali assunte dallo stato; poiché quando l’uomo dipende per il pane quotidiano da un funzionario statale il quale sta al disopra di lui, e questi a sua volta dipende da un funzionario ancor più alto situato, nasce una gerarchia di uomini ubbidienti invece di una società di liberi cittadini. Perciò l’uomo della strada, nemico del tiranno e desideroso di vivere liberamente così come piace all’uomo comune, desideroso di pace e di giustizia, involontariamente, pur non avendo notizia di alcuna teoria in proposito, aborre dai tipi di società i quali si avvicinino al punto critico; aborre cioè ugualmente dalle società dove la ricchezza è concentrata in poche mani come da quelle nelle quali i beni strumentali, i cosiddetti strumenti della produzione, sono posseduti da una mitica cosiddetta collettività, che vuol dire il gruppo politico o sociale impadronitosi del potere, qualunque sia la formula, nazionalistica o razzistica o comunistica, con la quale si sia giustificata la conquista del potere. Egli sa o sente che questi tipi di società e di governo tendono alla tirannia ed, essendo instabili, abbisognano di sempre nuove conquiste e sono perciò inesorabilmente tratti alla guerra.
Foto di copertina: La lezione di agricoltura, cromolitografia in miniatura del XV secolo, scuola francese.