La lettera di Papa Francesco al Corriere della Sera: “In questo momento di malattia la guerra appare ancora più assurda”

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 18.03.2025 – Vik van Brantegem] – Questa mattina martedì 18 marzo 2025 alle ore 06.07, sulla newsletter Il Punto del Corriere della Sera-Prima ora-Le cose da tener d’occhio oggi, l’editorialista Luca Angelini pubblica “La lettera del Papa al Corriere”, seguita da un commento su “le ore decisive per la tregua in Ucraina”, come riportiamo di seguito.
Successivamente, questa mattina alle ore 07.06, Vatican News ha pubblicato [QUI] con il titolo La guerra è assurda, disarmiamo la Terra, il testo integrale della lettera di Papa Francesco, in risposta al Direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, in seguito ad un suo messaggio di vicinanza in questo momento di malattia. Nel testo chiede di ribadire un appello per la pace e il disarmo sulle colonne del quotidiano:
Caro Direttore,
desidero ringraziarla per le parole di vicinanza con cui ha inteso farsi presente in questo momento di malattia nel quale, come ho avuto modo di dire, la guerra appare ancora più assurda. La fragilità umana, infatti, ha il potere di renderci più lucidi rispetto a ciò che dura e a ciò che passa, a ciò che fa vivere e a ciò che uccide. Forse per questo tendiamo così spesso a negare i limiti e a sfuggire le persone fragili e ferite: hanno il potere di mettere in discussione la direzione che abbiamo scelto, come singoli e come comunità.
Vorrei incoraggiare lei e tutti coloro che dedicano lavoro e intelligenza a informare, attraverso strumenti di comunicazione che ormai uniscono il nostro mondo in tempo reale: sentite tutta l’importanza delle parole. Non sono mai soltanto parole: sono fatti che costruiscono gli ambienti umani. Possono collegare o dividere, servire la verità o servirsene. Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra. C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità.
Mentre la guerra non fa che devastare le comunità e l’ambiente, senza offrire soluzioni ai conflitti, la diplomazia e le organizzazioni internazionali hanno bisogno di nuova linfa e credibilità. Le religioni, inoltre, possono attingere alle spiritualità dei popoli per riaccendere il desiderio della fratellanza e della giustizia, la speranza della pace.
Tutto questo chiede impegno, lavoro, silenzio, parole. Sentiamoci uniti in questo sforzo, che la Grazia celeste non cesserà di ispirare e accompagnare.
Francesco
Roma, Policlinico Gemelli, 14 marzo 2025
Poi, alle ore 07.44 di questa mattina, anche sull’edizione online del Corriere della Sera [QUI] è stata pubblicata la lettera di Papa Francesco per intera, con questa introduzione: «Questa è la lettera che Papa Francesco ha inviato dal Policlinico Gemelli di Roma, dove è ricoverato dal 14 febbraio scorso, al Direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana, che gli aveva inviato un messaggio di vicinanza e di augurio per la sua salute. Nella missiva il direttore Fontana aveva chiesto al Pontefice se volesse intervenire con un suo appello in un momento così grave e delicato, ma anche importante, per la comunità internazionale e per le popolazioni ancora martoriate dalla guerra. E aveva sottolineato proprio le parole del Pontefice che più volte ha condannato gli «schemi di guerra», anziché gli “schemi di pace”. Dopo alcuni giorni di attesa, ieri è arrivata questa lettera, datata 14 marzo, nella quale Papa Francesco parla delle proprie condizioni di salute, affronta il tema della fragilità umana e ribadisce il suo grido accorato affinché “ci si unisca in uno sforzo” per “riaccendere la speranza della pace”».
La lettera di Papa Francesco è stato pubblicata anche sull’edizione cartacea del Corriere della Sera.

Ricordiamo, che sul piano di riarmo dell’Unione Europea, il Segretario di Stato Cardinale Pietro Parolin, a margine di “Iftar – Tavolo del Ramadan” presso il St. Regis Hotel a Roma oggi 17 marzo 2025, si è mostrato preoccupato: “Quando ci si riarma, prima o dopo le armi devono essere utilizzate, no? Questa è stata sempre la politica della Santa Sede: insistere a livello internazionale perché ci sia un disarmo generale e controllato. Quindi non si può essere contenti della direzione che stanno prendendo le cose”.
“Pace in Ucraina? Mi pare che da parte delle Russia erano state poste delle condizioni soprattutto per quanto riguarda la verifica dell’osservanza della tregua, noi ci auguriamo che non mettano delle precondizioni che impediscano di avviare un dialogo. Questo processo di dialogo deve essere avviato, visto che da parte dell’Ucraina finalmente c’è disponibilità, che ci sia disponibilità anche dall’altra parte per questo cessate il fuoco di 30 giorni e poi avviare un negoziato per una pace giusta e duratura”, ha affermato il Cardinal Parolin.
La lettera del Papa al Corriere
e le ore decisive per la tregua in Ucraina
di Luca Angelini
Buongiorno.
Caro direttore,
in questo momento di malattia la guerra appare ancora più assurda. La fragilità umana ha il potere di renderci più lucidi rispetto a ciò che dura e a ciò che passa, a ciò che fa vivere e a ciò che uccide. Forse per questo tendiamo così spesso a negare i limiti e a sfuggire le persone fragili e ferite: hanno il potere di mettere in discussione la direzione che abbiamo scelto, come singoli e come comunità. Vorrei incoraggiare lei e tutti coloro che dedicano lavoro e intelligenza a informare, attraverso strumenti di comunicazione che ormai uniscono il nostro mondo in tempo reale: sentite tutta l’importanza delle parole. Non sono mai soltanto parole: sono fatti che costruiscono gli ambienti umani. Possono collegare o dividere, servire la verità o servirsene. Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra. C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità. Mentre la guerra non fa che devastare le comunità e l’ambiente, senza offrire soluzioni ai conflitti, la diplomazia e le organizzazioni internazionali hanno bisogno di nuova linfa e credibilità.
Così, in una lettera scritta dal Policlinico Gemelli di Roma (dove resterà ricoverato ancora per diversi giorni, nonostante i lievi miglioramenti), Papa Francesco si è rivolto al direttore del Corriere, Luciano Fontana.
E il momento non potrebbe essere più attuale. Sono ore decisive. Oggi, con l’annunciata telefonata fra Donald Trump e Vladimir Putin capiremo se davvero, come ha ripetuto anche ieri la Casa Bianca, «non siamo mai stati così vicini alla pace». O almeno a un cessate il fuoco. Se poi quel cessate il fuoco si rivelerà un primo passo per «rendere concreta la pace in un contesto internazionale ove sono prevalse spinte aggressive, in Ucraina come in Medio Oriente» (come ha auspicato anche ieri il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione della Festa dell’Unità d’Italia) o non invece un accordo sulla testa di Kiev che avvicinerà quello che Aldo Cazzullo continua a considerare l’obiettivo finale di Putin («Fare dell’Ucraina un Paese vassallo»), è l’altra grande incognita.
Da Kiev, Lorenzo Cremonesi scrive che, in Ucraina, non sono in pochi a temere, sia negli ambienti di governo che tra i commentatori locali, che il presidente Usa possa «svendere» la causa ucraina in cambio di accordi economici bilaterali privilegiati e di cooperazione strategica con Mosca. «Il Kyiv Post sottolinea che lo stesso Mike Waltz, Consigliere per la Sicurezza Nazionale alla Casa Bianca, durante una conferenza stampa domenica ha dimostrato di sposare in modo acritico la precondizione russa, per cui gli ucraini dovranno accettare subito “la realtà della situazione sul campo”, che significa piegarsi al compromesso territoriale. Il media ucraino ricorda che i dirigenti del Cremlino più di una volta hanno detto di considerare “irrinunciabili” le province ucraine della “Novorossiya”, che nella loro lettura comprendono non solo le intere quattro regioni che adesso controllano solo parzialmente — Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia — ma a cui devono aggiungersi anche le zone di Mykolaiv, Odessa e persino Dnipro. In pratica tutto il sud-est del Paese». Il ministro degli Esteri ucraino Andriy Sybiha ha indicato ieri quelli che sono per Kiev gli aspetti «non negoziabili»: «L’Ucraina non riconoscerà mai i territori occupati; secondo, nessun Paese ha il diritto di mettere il veto sulla scelta degli ucraini di unirsi ad alcuna alleanza, che si tratti dell’Unione europea o della Nato».
Il Presidente americano, tornando a Washington da Mar-a-lago, ha fatto qualche anticipazione dall’aereo presidenziale, ma piuttosto vaga. Nella telefonata con Putin, ha detto, «parleremo di territori, parleremo di impianti energetici, perché questo è un grosso tema. Ma ci sono molte cose che sono state già discusse da entrambi i lati. Dall’Ucraina e dalla Russia, abbiamo già parlato con loro di dividere certi beni». (Secondo qualche media Usa, Trump sarebbe pronto a riconoscere, ad esempio, l’annessione russa della Crimea)
Qualcos’altro ha aggiunto, alla Cbs, Steve Witkoff, che ha incontrato Putin a Mosca giovedì scorso. Putin accetta «la filosofia di Trump» sul porre fine alla guerra. Alla domanda su quanto tempo ci potrebbe volere per arrivare ad un accordo, Witkoff ha citato Trump, che ha detto che ci vorranno settimane: «Non sono in disaccordo con lui». Poi ha aggiunto che gli americani intendono continuare a tenere colloqui separati con le delegazioni ucraina e russa questa settimana.
Se si arrivasse a un cessate il fuoco, di 30 giorni o quanti saranno, ci sarebbero in ogni caso due problemi. Il primo, più immediato, l’ha evidenziato lo stesso Putin: chi sorveglierà che la tregua non venga violata e segnalerà chi sia, nel caso, a trasgredirla? In genere, per compiti del genere vengono inviati contingenti di Paesi che non sono in alcun modo coinvolti nel conflitto. Il secondo riguarda le «garanzie di sicurezza» che l’Ucraina – comprensibilmente, visti i precedenti – continua a chiedere in caso di un trattato di pace, ossia: chi e come garantirà Kiev contro il rischio di una nuova invasione russa negli anni a venire? Ed è soprattutto qui che l’Europa e la «coalizione dei volenterosi» tenuta a battesimo dal premier britannico Keir Starmer potrebbero rientrare nella partita.
In che modo, Giuseppe Sarcina lo spiega così: «Da mesi il leader ucraino, Volodymyr Zelensky, tramontata l’ipotesi di accedere quanto prima alla Nato, chiede un robusto dispiegamento di militari stranieri come deterrente nei confronti di Putin. Meglio se europei, ma non necessariamente europei. (…) Nel gruppo dei “volenterosi” si sta segnalando l’attivismo di Anthony Albanese e di Christopher Luxon, premier rispettivamente di Australia e Nuova Zelanda. I due leader hanno già comunicato a Starmer, Macron e Zelensky la disponibilità a partecipare a una forza di interposizione in Ucraina». Certo i due Paesi sono stretti alleati di Stati Uniti e Regno Unito, con i quali, insieme al Canada, costituiscono i «Five eyes», gruppo che si scambia le più importanti informazioni di intelligence. Però, pur avendo sempre appoggiato l’Ucraina, non fanno parte della Nato. Finora per loro era stato ipotizzato un ruolo marginale, di semplice supporto. «Lo scenario, però – spiega Sarcina – potrebbe cambiare rapidamente, anche per la spinta che arriva dalla Turchia». Anche Erdogan ha difeso il diritto all’integrità territoriale dell’Ucraina, ma, pur aderendo all’Alleanza Atlantica, si è proposto come mediatore tra Mosca e Kiev. «Il presidente turco ha risposto positivamente all’appello di Starmer e Macron, ma a condizione di ottenere una posizione paritaria nella pianificazione militare e nella struttura di comando. Ecco allora che da una missione interamente nelle mani dei generali britannici e francesi (piano A) potremmo passare a una configurazione più corale (piano B). Ci sarebbe una guida a rotazione semestrale o annuale tra Regno Unito, Francia, Turchia e forse anche Australia. Il risultato sarebbe quello di diluire il peso degli europei». Secondo alcuni analisti, come i generali Vincenzo Camporini (qui l’intervista concessa a Rinaldo Frignani) e Giorgio Battisti, conclude Sarcina, potrebbero essere coinvolti anche altri Paesi, come India o Egitto, finora rimasti fuori dal perimetro dei «volenterosi».
Primo piccolo particolare: il Cremlino continua a considerare la presenza di truppe europee in Ucraina sostanzialmente come una dichiarazione di guerra.
Secondo piccolo particolare: l’Unione europea non sta esattamente marciando «come un sol uomo». Su quello che Sarcina ha chiamato il piano A, un contingente guidato dai britannici e dai francesi, con il contributo di Olanda, Lituania, Lettonia Estonia e (forse) Germania, Finlandia e Belgio, dopo Italia e Spagna si è sfilata, a sorpresa, anche la Polonia. Motivo? Il timore è di trovarsi imbarcati in una missione velleitaria, senza la copertura giuridica dell’Onu e, soprattutto, senza lo scudo militare degli Stati Uniti. Ma i Ventisette, segnala Francesca Basso da Bruxelles, sono divisi anche sulle quote dei contributi per gli aiuti a Kiev. A mettersi di traverso, sul piano da 40 miliardi di aiuti presentato dall’Alta rappresentante per la politica estera Ue Kaja Kallas, non è soltanto la solita Ungheria. «Uno degli aspetti del piano che ha sollevato dubbi, soprattutto tra i grandi Paesi – spiega Basso – è la scelta della chiave di ripartizione in base al Pil. Tra gli scettici ci sono Italia, Francia, Belgio, Spagna, Grecia, Malta e Cipro». «Valuteremo con grande attenzione il piano Kallas» – ha assicurato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, aggiungendo che il contributo dell’Italia sarebbe di «4-5 miliardi» e invitando a tenere presente che «noi dobbiamo anche raggiungere l’obiettivo del 2% della Nato e c’è il piano per la sicurezza della presidente von der Leyen».
Le divisioni italiane
Non sono quelle di militari da inviare sul terreno, visto che il governo resta contrario, ma le divisioni dentro la maggioranza e nell’opposizione. La Premier Giorgia Meloni, anticipa Marco Galluzzo, arriverà oggi in Parlamento con un’intesa su una risoluzione unitaria da presentare al Consiglio europeo di giovedì. «Sarà articolata in 12 punti, ma stando alla larga da tutti i temi divisivi, senza citare le iniziative di Francia e Inghilterra sull’ipotesi di un contingente militare europeo, accontenterà la Lega nel ribadire che la Ue non ha bisogno solo di un programma che si chiami ReArm, piuttosto di un programma più vasto, che comprenda anche altri ambiti strategici, per esempio la cybersecurity. Poi la risoluzione, che farà riferimento anche a temi strategici come la competitività europea e la riconversione industriale di settori in crisi, insisterà su almeno due parole che mettono tutti e tre i leader d’accordo: imprescindibilità del ruolo degli Stati Uniti, anche depotenziato, in qualsiasi scenario, legato o meno alla crisi Ucraina, e altrettanta imprescindibilità del ruolo della Nato, dunque Alleanza atlantica centrale in qualsiasi contesto post crisi. Nella forza delle relazioni transatlantiche, infatti, Meloni e Salvini non hanno difficoltà a trovare un denominatore comune, e altrettanto vale per Forza Italia. E ovviamente, nella bozza che è circolata ieri sera, si fa un riferimento esplicito, per il post crisi fra Russia e Ucraina, se ci si arriverà, al ruolo delle Nazioni Unite».
Quanto alle opposizioni, oltre alla «concorrenza» sempre più netta fra Movimento 5 Stelle e Pd (che Roberto Gressi condensa in un «Elly e Giuseppe all’ultima sfida, che promette di protrarsi fino al giorno prima delle elezioni politiche, senza sapere se ci sarà alleanza o meno»), va avanti il tentativo dei dem di ricucire la lacerazione provocata dal voto all’Europarlamento sul ReArm Europe. L’aggiornamento di Maria Teresa Meli è questo: «Nel weekend spiravano ancora venti di guerra nel campo dem, ma ieri sia maggioranza che minoranza hanno compreso che andare allo scontro, proprio in questo momento, sarebbe stato solo “un favore alla destra”». Probabile, quindi, che stavolta i gruppi parlamentari non si spacchino sulla risoluzione da presentare oggi in Aula.
La situazione resta comunque quella dipinta da Massimo Franco nella sua Nota: «I tormenti simmetrici della premier Giorgia Meloni e della segretaria del Pd, Elly Schlein, trasmettono una sensazione speculare e inedita. E cioè che per la prima volta le leader dei due maggiori partiti, di governo e di opposizione, si trovino a fare i conti con le contraddizioni della loro politica estera. È chiaro che per Palazzo Chigi il tema è più spinoso, perché Meloni guida il Paese». (Qui l’analisi di Federico Fubini «Perché l’Italia non sa scegliere tra l’Ue e Trump: 500 milioni di dosi di vaccino buttati in Europa e le 7 verità a cui gli elettori hanno diritto»).
A tutti, governo e maggioranza, stamattina Mario Draghi, sempre in Parlamento, in un’audizione informale alle commissioni riunite Bilancio, Attività produttive e Politiche dell’Unione europea di Camera e Senato, ricorderà le sfide che attendono l’Europa, facendo una sorta di aggiornamento a 6 mesi dalla sua prima «scossa» al Vecchio Continente. Innovazione, transizione energetica, difesa restano le scommesse per un cambiamento radicale diventato ancora più necessario.