Quid est veritas? Est vir qui adest

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 17.03.2025 – Jan van Elzen] – Il concetto di verità non è per niente facile da affrontare e ci sono innumerevoli disquisizioni filosofiche su che cosa si possa davvero considerare una verità assoluta. Innanzitutto, è molto difficile scoprire la verità su qualcosa non vissuto in prima persona, che sta accadendo a migliaia di chilometri di distanza, in paesi di cui si conosci solo vagamente la storia. In ogni caso, per quanto si possa essere informato, le convinzioni individuali sono influenzate dalle esperienze personali, dalla cultura, dall’istruzione, dal senso critico, dalla professione, dalla situazione in cui si trova e da altri fattori che plasmano la percezione del mondo. Nessuno può affermare di conoscere la verità completa ed assoluta. La storia non è matematica. E in tutto ciò, la domanda resta: che cosa è la verità?
Nel dialogo tra Gesù e Pilato, il quinto dei procuratori romani che dall’anno 6 d.C. governarono la Giudea, chiede: “Che cos’è la verità?”. Gesù non risponde. Sant’Agostino interpretò questo silenzio con un gioco di parole: anagrammando la domanda di Pilato che nel latino della Vulgata era “Quid est veritas?”, rispondeva “Est vir qui adest”, cioè: è l’uomo qui presente, è l’uomo qui davanti a te. Gesù stesso aveva detto di sé stesso: “Io sono la via, la verità e la vita”. Insomma Gesù è la Verità incarnata e per questo dice chiaramente a Pilato: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. Quindi riassumendo: chi segue Gesù è nella verità, chi non lo segue si costruisce una sua verità, ovvero una verità parziale e perciò falsa.

«Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. 38 Gli dice Pilato: “Che cos’è la verità?” E detto questo uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: “Io non trovo in lui nessuna colpa”» (Gv 18,37-38).
La domanda di Ponzio Pilato a Gesù è diventata espressione proverbiale per esprimere il dubbio, la perplessità. Il governatore risponde all’affermazione di Gesù con una domanda quasi retorica che risuona beffarda. Vuole metterlo in difficoltà dall’alto della sua presunta superiorità di civis romanus imbevuto di cultura ellenica e di potere. La domanda pone di fronte due uomini diametralmente diversi: Gesù intende la verità come rivelazione da Lui incarnata, come entità assoluta e divina al quale l’uomo può accedere solo tramite Egli stesso, venuto nel mondo per la salvezza. Pilato si riferisce a una verità di accezione tipica del pensiero greco, cioè come realtà oggettiva, non legata a una dimensione teologica ma a dati concreti di fatto.
«Un tempo non era permesso a nessuno pensare liberamente. Ora sarebbe permesso, ma nessuno ne è più capace. Oggi la gente vuole pensare ciò che si suppone debba pensare. E questo lo si considera libertà». Nel 1922, il filosofo e storico tedesco Oswald Spengler, ne Il tramonto dell’Occidente, pose l’accento sulla perdita di valori e sul declino di un’Europa in cui prendevano piede forme di disprezzo della democrazia e della libertà. Un quadro che avrebbe contribuito allo scatenarsi del secondo conflitto mondiale. Anni dopo, nel 1949, lo scrittore inglese George Orwell, ne 1984, preconizzò una società agonizzante, priva di libertà, in cui i libri erano banditi e le persone private dell’accesso alle informazioni. Un mondo in cui «la menzogna diventa verità e passa alla storia». Dove il pensiero critico individuale diventa inconcepibile, le scienze e la produzione culturale sono addomesticate per essere coerenti con gli scopi del Grande Fratello. Dove la verità non conta: tutto è sistematicamente riscritto, per far spazio a una realtà ufficiale che nega quella fattuale.
Secondo Spengler, la verità pubblica è un prodotto della stampa: «Che cos’è la verità? Per la massa è ciò che si legge e si ascolta continuamente. Un povero babbeo può sedersi da qualche parte e cumulare principi allo scopo di fissare la verità – resta il fatto che si tratta della “sua” verità. L’altra, la verità pubblica, quella del momento, la verità che conta nel mondo effettivo dell’azione e del successo, oggigiorno è un prodotto della stampa. Ciò che essa vuole, è vero. I suoi padroni producono, mutano e scambiano la verità. Bastano tre settimane di lavoro redazionale e tutto il mondo conoscerà la verità».
Anche la retorica antica si basava sull’effetto e non sul contenuto oggettivo del discorso, ma essa si limitava ad agire sui presenti e al momento. L’impegno della stampa, esercitando sulle menti una costante pressione, invece mira ad effetti durevoli: essa. I suoi argomenti sono confutati solo se un’altra potenza finanziaria più forte si mette dalla parte di chi afferma l’opposto, dando modo di farli circolare più insistentemente. E la bussola della pubblica opinione si sposterà verso il polo più forte. Perciò, oggi la verità pubblica è un prodotto della stampa.
In realtà, Spengler intende qualcosa come “ritener-vero”, più che verità assoluta. Per dare una definizione di realtà oggettiva bisogna fare una distinzione: in un caso la verità consiste in una qualità di una persona o di una cosa, nell’altro caso consiste in una relazione tra un enunciato e la realtà. La prima verità è detta verità dell’essere, mentre la seconda è detta verità dell’enunciato: non è vero un enunciato, ma il contenuto dell’enunciato, e questo contenuto si chiama proposizione. Una proposizione è vera se corrisponde ai fatti, è falsa se non vi corrisponde. Questa concezione di verità si basa sulla conformità o non conformità, quindi sulla teoria della conformità, detta anche teoria della verità come corrispondenza. Essa è una riformulazione della tesi classica secondo cui la verità è la corrispondenza della conoscenza con la realtà. Aristotele diceva: falso è dire che l’essere non è, e che in non-essere è. Per rivendicare la pretesa di verità di una proposizione, non è necessario affermare che quella sia vera: formulando la proposizione, supponiamo già che sia vera.
L’enunciato di Oswald Spengler si sofferma sulla relazione e percezione individuale e collettiva della realtà. Spengler suggerisce, che per molti la verità non è tanto ciò che è oggettivamente valido o appurato, ma piuttosto ciò che viene ripetutamente letto o sentito. Da qui si sollevano una serie di interrogativi sulla natura della verità e sulla sua dipendenza dalla comunicazione e dall’esperienza condivisa.
Innanzitutto, l’affermazione di Spengler pone in evidenza la natura soggettiva della verità. Ciò che una persona considera vero potrebbe non essere per forza accettato come tale da un’altra persona.
Inoltre, afferma che la verità può essere plasmata dall’ambiente circostante. Ciò che viene costantemente presentato attraverso la comunicazione di massa, come i media, influenza pesantemente le opinioni e le credenze della società nel loro complesso. Da sempre questo ha destato preoccupazioni riguardo alla manipolazione dell’opinione pubblica e alla diffusione di informazioni errate o fuorvianti.
Infine, interroga sulla natura stessa della verità. È la verità un concetto assoluto e immutabile, o è soggetta a cambiamenti e interpretazioni in base al contesto e alle prospettive individuali? La risposta potrebbe risiedere in un equilibrio tra oggettività e soggettività, dove la verità è intesa come una costruzione complessa che può variare a seconda dei punti di vista, ma che allo stesso tempo è radicata in fatti e realtà condivise.
Le parole di Spengler sono anche una provocazione, che mirano a far esaminare criticamente la natura della verità e a considerare come sia influenzata dalla percezione individuale e collettiva, dalla comunicazione di massa e dalle esperienze condivise. Rammenta di non accettare acriticamente ciò che viene presentato come verità, ma di cercare sempre una comprensione più profonda e contestuale senza cadere nei condizionamenti.
«Le folle non hanno mai avuto sete di verità. Dinnanzi alle evidenze che a loro dispiacciano, si voltano da un’altra parte, preferendo deificare l’errore, se questo le seduce. Chi sa illuderle, può facilmente diventare loro padrone, chi tenta di disilluderle è sempre loro vittima.
Nell’enunciare i fattori capaci di impressionare le folle, potremmo esimerci dal ricordare la ragione, se non fosse necessario sottolineare il valore negativo della sua influenza. Le folle non sono influenzabili dai ragionamenti, ma soltanto da grossolane associazioni di idee. Ecco perché gli oratori che sanno impressionarle fanno appello ai sentimenti e mai al raziocinio. Le leggi della logica razionale non hanno alcun effetto sulle folle. L’oratore che segue il suo pensiero e non quello degli ascoltatori perde, per questo solo fatto, ogni efficacia. Gli spiriti logici, avvezzi a ragionamenti ben concatenati ed alquanto stringati, non sanno rinunciarvi quando si rivolgono alle folle, e poi restano sempre sorpresi per lo scarso effetto dei loro argomenti.
Così, vagando costantemente ai limiti dell’incoscienza, subendo tutte le suggestioni, animata dalla violenza dei sentimenti tipici di chi non può fare appello a influenze razionali, sprovvista di spirito critico, la folla rivela tutta la sua straordinaria credulità. Per essa non esiste l’inverosimile, cosa della quale non dobbiamo mai dimenticarci se vogliamo comprendere con quale facilità si creano e si propagano le leggende e le voci più stravaganti. La nascita e la diffusione di tante leggende tra le folle sono il risultato non soltanto di questa totale credulità, ma anche delle prodigiose deformazioni che gli eventi subiscono nella immaginazione degli individui assieme radunati. La folla pensa per immagini, e l’immagine evocata evoca a sua volta una serie di altre immagini senza alcun nesso logico con la prima. La ragione indica l’incoerenza di simili immagini, ma la folla non la vede; e ciò che l’immaginazione deformante aggiunge all’avvenimento sarà da essa confuso con l’avvenimento stesso. Incapace di separare il soggettivo dall’oggettivo, la folla considera reali le immagini evocate nel suo spirito mentre quelle immagini hanno soltanto un’affinità remota con il fatto osservato.
Il potere di una parola non dipende dal suo significato, ma dall’immagine che essa suscita. La ragione è gli argomenti logici non riescono a lottare contro certe parole e certe formule.
Finora, il compito più preciso delle folle è consistito nella distruzione delle civiltà invecchiate. La storia insegna che quando le forze morali, armatura di una società, hanno perduto il loro potere, la dissoluzione finale è compiuta ad opera di quelle moltitudini incoscienti e brutali, giustamente definite barbare. Le civiltà sono state create e guidate finora da una piccola aristocrazia intellettuale, mai dalle folle. Queste ultime possiedono soltanto una potenza distruttiva. Il loro predominio rappresenta sempre una fase di disordine. Una civiltà implica alcune regole fisse, una disciplina, la capacità di abbandonare l’istinto per la ragione, una certa dose di preveggenza, un grado elevato di cultura, qualità inesistenti nelle folle. Grazie ad una potenza unicamente distruttiva, esse agiscono come quei microbi che accelerano la dissoluzione dei corpi malati o dei cadaveri. Quando l’edificio di una civiltà è tarlato, le folle ne provocano il crollo. È in questo momento che si manifesta il loro compito. Per un attimo, la forza cieca del numero diventa la sola filosofia della storia. Rassegniamoci a subire il regno delle folle, poiché mani imprevidenti hanno rovesciato una dopo l’altra tutte le barriere che potevano trattenerle.
Le folle hanno istinti conservatori irriducibili e, come tutti i primitivi, un rispetto feticistico per le tradizioni, un orrore inconscio delle novità capaci di modificare le reali condizioni di vita» (Gustave Le Bon, Psicologia delle folle).
«C’era un famoso oratore nel mondo antico che era nemico di Socrate: Callicle. Cosa aveva di speciale questo Callicle? Era quello che oggi potremmo definire un imbonitore. Perché? Perché diceva alla gente quello che la gente voleva sentirsi dire. Callicle sapeva anticipare l’opinione popolare e adattarvi il proprio discorso, così da catturare sempre il consenso della folla.
Usava spesso nei suoi discorsi parole-chiave come: libertà, patria, democrazia, diritti, cambiamento, parole cioè che facessero presa sulla gente. Parlava senza mai dire nulla di concreto, senza sbilanciarsi troppo. Parlava cioè quella lingua che oggi si chiama «politichese». Opposta alla figura di Callicle vi è invece Cassandra [*], colei che nonostante la veridicità delle sue parole, viene trattata come una folle e creduta soltanto quando ormai è troppo tardi. Perché? Perché Cassandra a differenza di Callicle non conosce l’arte della parola.
Ma perché la gente non smaschera i tanti Callicle di oggi e di ieri? La risposta ve la fornisce Orwell in quel capolavoro che è 1984. Ricordate il bipensiero? Il Partito nel romanzo di Orwell impone alla gente le sue verità e l’attimo dopo smentisce quanto ha detto, ma non importa, la gente continua a credergli. Vi suona familiare?
La massa è più che disposta ad essere ingannata. Chi parla con sincerità viene spesso deriso e frainteso e negli agoni politici il popolo da la sua preferenza a chi invece lo seduce e lo lusinga. Costui riscuote sempre un grande successo perché sfrutta le speranze e le paure del suo uditorio; alimenta tali speranze con grandiose promesse, condannando all’oblio le tante “Cassandre”, che continuano a gridare la verità» (Guendalina Middei-Professor X).
[*] Cassandra, figura della mitologia greca, era gemella di Eleno e sorella minore di Ettore, figlia di Ecuba e di Priamo, Sovrani di Troia. Fu sacerdotessa nel tempio di Apollo, da cui ebbe la facoltà della preveggenza. Profetizzò terribili sventure, tra cui la distruzione di Troia [QUI], ed era pertanto invisa a molti. Per antonomasia, è frequente l’attribuzione dell’appellativo “Cassandra” a chi, pur annunciando eventi sfavorevoli giustamente previsti, non viene creduto. Con la “sindrome di Cassandra” viene definita la condizione di chi formula ipotesi pessimistiche, ed è convinto di non poter fare nulla per evitare che si realizzino.
Foto di copertina: iscrizione stilizzata in catalano all’entrata della basilica della Sagrada Família a Barcellona.