«La clessidra del mondo sta esaurendo le sue risorse»

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 24.02.2025 – Jan van Elzen] – La parola del giorno è clessidra. Significato particolare: orologio costituito da due recipienti di vetro sovrapposti, comunicanti tra loro mediante uno stretto passaggio attraverso il quale scorrono lentamente sabbia o acqua, dando così la misura del tempo trascorso.
Etimologia attraverso il francese clepsydre, dal latino clepsydra, dal greco klepsýdra (orologio ad acqua), composto di klépto (rubare) e hýdor (acqua). Il fatto che il nome della clessidra significhi alla lettera “ruba-acqua” può perplimere. Ma c’è molto altro di strano, nell’esperienza del nome e dell’uso di questo strumento per misurare il tempo.
Se parlo dell’orologio della vita, ecco che ore e stagioni si avvicendano sul quadrante: per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo. Ma se parlo della clessidra della vita…?
Anche se oggi le compriamo per pochi soldi, è chiaro che la clessidra sia uno strumento che richiede un sofisticato apparato tecnologico, per essere prodotto. Due recipienti di vetro, collegati per uno stretto passaggio… roba raffinata. E in effetti le clessidre che conosciamo noi sono un’invenzione antica, ma non remota — probabilmente alessandrina. Sono l’evoluzione delle clessidre originarie: dispositivi che misuravano il tempo col flusso costante di acqua fra recipienti, in uscita o in entrata. Per intenderci, in una versione semplice la clessidra poteva essere un vaso forato da cui l’acqua passava in un altro vaso in un tempo noto. Questa roba invece sì, è di uso remoto: per via delle variazioni di velocità del flusso non offre una misurazione precisa, ma ha il pregio interessante d’essere semplice e di infischiarsene dell’astronomia, per misurare il tempo. Perciò la clessidra è una ruba-acqua: funziona con quella che pare una sottrazione.
Come si può immaginare, nella storia dell’uso della clessidra c’è un buco di parecchi secoli. Il suo nome viene recuperato e adattato nel Rinascimento, e parlando di clessidre antiche. Anche se c’era un ambito in cui l’uso fu riscoperto prima: le clessidre marine erano praticamente l’unico modo di misurare il tempo in nave, anche se un po’ alla grossa. E furono queste, per chiari motivi legati alla navigazione, a mostrare i vantaggi di un contenuto granulare anziché liquido. Via via si raffinarono, e rimasero relativamente più economiche degli orologi meccanici per un sacco di tempo.
In questi secoli il nome della clessidra si associa al tempo in una maniera unica. Non sono pochi gli strumenti per misurare il tempo, l’umanità si è sempre ingegnata, e però la clessidra ha una potenza iconica unica. Col suo inesorabile filo di sabbia precipite mostra il mucchio del tempo che è trascorso e quello del tempo che rimane — sempre meno. E non torna indietro, non fa il giro, non sparisce. Nessun orologio meccanico, meridiana, candela riesce a proiettare qualcosa di paragonabile, a impressionarci altrettanto. E questo si nota in modo evidente nell’uso metaforico.
Se parlo dell’orologio della vita, ecco che ore e stagioni si avvicendano sul quadrante: per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo. Ma se parlo della clessidra della vita…? Ecco l’impatto del tempo che non torna, dell’occasione sola, del coacervo del passato.
Non è solo per semplicità che la clessidra scandisce i tempi dei giochi da tavolo; e il suo profilo, simmetrico ed elegante, diventa simbolo del tempo stesso — che ci viene mostrato anche quando dobbiamo aspettare che il computer concluda il processo più sofisticato.
Tanto iconica è la clessidra che resiste da sempre all’obsolescenza. Non è lo strumento più preciso ed efficiente, nel fare quello che fa. È solo il più bello. Quello che ci parla di più del senso unico del tempo.
Clessidra come concetto di tempo che passa per la scadenza, esaurendo il tempo.
Fonte: Unaparolaalgiorno.it [QUI]
«Guarda la clessidra, il tuo tempo si sta esaurendo».
«Il mercante di ombre avanza senza sosta, portandosi dietro un carretto colmo di sciagure e paure, che rendono il presente sempre più oscuro. Ma non lasciamoci ingannare, esorta il costruttore, siamo ancora in tempo per evitare che il male prenda il sopravvento sulla ragione. Facciamo presto però: la clessidra del mondo sta esaurendo le sue risorse. Siamo noi che possiamo e dobbiamo rovesciarla, prima che sia troppo tardi…» (Lorenzo Paoli, Presto che è tardi, maschera per il Carnevale di Viareggio 2025 [QUI]).
«Anime tormentate chiamano il visitatore, ma Arteiro sa che la clessidra era stata capovolta e che il suo tempo si sta assottigliando. L’Incantato è perso e senza direzione; per quanto cammini, rimane sempre nello stesso posto. La speranza sta cominciando ad abbandonare Arteiro. Il suo ardore si sta dissolvendo e così anche il proprio proposito: il tempo concessogli si sta esaurendo e la sua luce interiore si va progressivamente dissolvendo, gli spiriti oscuri si avvicinano come belve affamate. Ad un certo punto, una melodia, legata a parole di cordoglio, sibila nel vento. È Celeste» (Caravellus, Inter Mundos 2022 [QUI]).
Cinquecento anni di ovvietà
«Un quarto d’ora prima di morire era ancora in vita»
Editoriale di Unaparolaalgiorno.it, 24 febbraio 2025
Oggi ricorre un cinquecentenario importante, per chi ama la lingua e le sue curiosità. E se diciamo che è un cinquecentenario che ricorre solo una volta ogni cinquecento anni, vi do già un indizio su quale.
Il 24 febbraio del 1525 si combatté a Pavia una celebre battaglia fra l’Impero di Carlo V e la Francia di Francesco I, nel quadro delle tremende Guerre d’Italia. Fra le vittime di questa battaglia ce ne fu una illustre, che è ricordata dalla storia e dal vocabolario per un caso bizzarro: Jacques de Chabannes, signore di La Palice. Un canto dei soldati che celebrava le sue ultime prodezze finì deformato dall’uso: quello che potremmo tradurre come «un quarto d’ora prima di morire faceva ancora invidia» mutò in «un quarto d’ora prima di morire era ancora in vita». Via via il canto si ridusse a uno scherzo su delle ovvietà, e dopo un secolo e mezzo fu ripreso e ampliato al parossismo della parodia da un accademico di Francia. Così il nome di La Palice fu associato alla tautologia, all’ovvietà, e ne traiamo l’aggettivo “lapalissiano”. Vie curiose, quelle del tempo e dei destini umani: un condottiero francese presta il suo nome a significati che non hanno niente a che fare con ciò che fece in vita sua.
Non sarà la ricorrenza più rilevante, che debba destare i pensieri più seri e contegnosi. Ma è un’occasione in più per pensare a come le vie di questa cosa che facciamo insieme, la lingua, possano portare lontano, in modi impensati. Quindi rivolgiamo un piccolo, strano pensiero a Jacques de Chabannes, che statisticamente potrebbe bene essere un nonno lontano di qualcuno di noi, al bel servizio che rese, all’affetto che suscitava in chi per primo compose un canto in onore suo, alla bella parola che conserva il suo nome.