Il credente (che ha fede perché ha dubbi) e l’ateo (che è troppo sicuro di sé) di fronte a Colui Che È (ipsum esse per se subsistens)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 15.12.2024 – Vik van Brantegem] – Oggi 15 dicembre, la Chiesa fa memoria di San Valeriano, vescovo in Africa e martire. Era Vescovo di Abbenza (antica provincia nel Nord Africa, l’attuale Tunisia). Quando, durante la persecuzione vandalica, il Re ariano Genserico gli ordinò di consegnare gli arredi sacri della Chiesa, egli si rifiutò e protestò per la crudeltà con la quale agivano i soldati. Di fronte alla sua ferma reazione, il Re Genserico espulse l’ottantenne Vescovo Valeriano dalla città, ordinando nel contempo che nessuno gli prestasse ospitalità né in casa né tra i campi, costringendolo per lungo tempo a vivere a cielo aperto sulla pubblica strada, giungendo, in tal modo, intorno al 460 al termine della sua santa vita.

Nel giorno in cui commemoriamo San Valeriano come confessore della retta Fede, segnaliamo l’ultimo libro di Padre Giovanni Cavalcoli, O.P., noto teologo ed autore, Dio non esiste? Ateismo e salvezza (Chorabooks 2024, 128 pagine [QUI]), un testo denso e importante che affronta il drammatico tema dell’ateismo, che conduce il lettore in un tour de force attraverso la storia della teologia e della filosofia. Nel contempo ospitiamo un testo dello stesso teologo domenicano Cavalcoli Chi è l’ateo da Traditio, seguito dal testo La “grande domanda” e le “non ragioni” degli atei di Dario Antiseri da Vita e Pensiero.

Nell’incipit del Capitolo I. Occorre prendere sul serio la questione dell’ateismo, Padre Cavalcoli scrive: «Scrivo questo saggio perché faccio mie e parole pronunciate da Benedetto XVI, nella memorabile lettera che egli scrisse ai vescovi il 10 marzo del 2009: “Il vero problema in questo nostro momento della storia – scriveva quel Papa – è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più”. Si potrebbe dire per converso che l’umanità resta umana solo in quanto almeno implicitamente crede in Dio e viceversa diventa disumana nella misura in cui abbandona Dio. È impossibile amare l’uomo se non si ama Dio, così come non si può ottenere l’effetto se non si fa leva sulla causa. Parimenti, se c’è l’effetto, c’è la causa che lo produce: chi ama sincerante il prossimo, dà prova di amare Dio, è egli stesso una prova dell’esistenza di Dio, anche se forse si considera ateo, ma, come è stato detto, “crede di non credere”. È quella che un tempo si chiamava “fede implicita”».
Chi è l’ateo
di Giovanni Cavalcoli, O.P.
Che cosa intendiamo con la parola «Dio»?
Si dice comunemente che l’ateo è chi nega che Dio esista. Che cosa s’intende con la parola «Dio»? Se guardiamo nel vocabolario, troveremo: «ente supremo». Una volta che abbiamo chiarito il significato della parola, nasce un’altra domanda: chi è Dio? Qual è il vero Dio? A chi conviene il predicato «Dio»? Come dev’essere un ente per essere convenientemente chiamato Dio? Perché meriti il nome «Dio»? Infatti c’è la possibilità di chiamare «Dio» ciò che non è Dio.
L’ateo si rifiuta di usare la parola Dio e si chiude alla comprensione di questa parola. Per lui è una parola vuota di senso, un termine per designare qualcosa che non esiste e che quindi non offre alcun interesse. Altri associano a questa parola i significati più diversi: l’uomo, la coscienza, l’io, l’essere, il pensiero, il mondo, l’universo, l’assoluto, l’infinito, l’indeterminato, il mistero, la totalità, l’evoluzione, la storia.
L’ateo, nel rifiutare ciò che è veramente assoluto e divino, finisce per assolutizzare il relativo e il creato. Il suo bisogno di assoluto, di eterno, di infinto lo soddisfa invano col relativo, col finito, col temporale. Costruisce sulla sabbia anziché sulla roccia. Il suo Dio diventa il vento che tira, la moda del giorno. Si appoggia su ciò che passa come se non passasse.
L’ateo non è senza Dio, ma contro Dio. L’ateismo non è una posizione teoretica, ma pratica. Non dipende dall’intelletto, ma dalla volontà. L’ateo capisce le prove dell’esistenza di Dio, ma si rifiuta di considerarle. Sa che Dio esiste, ma non ci pensa.
Un conto è definire il senso della parola Dio e un conto è chiedersi chi è Dio? La Bibbia qui si chiede qual è il «nome» di Dio, perché per «nome» intende l’essenza di Dio. Quindi è come se si chiedesse qual è l’essenza di Dio. Si può dare una definizione dell’essenza di Dio?
La parola Dio non è necessaria per nominare l’ente supremo, per nominare Dio. Nella lingua cinese, per esempio, Dio è nominato con la parola Tien, che significa «cielo». Ma come sappiamo che si riferisce a Dio? Perché il cielo richiama a ciò che è alto, grande, vasto, potente, immutabile, trasparente, eterno, luminoso, attributi divini. La stessa parola Dio deriva dalla radice sanscrita dib, che vuol dire «luce», immagine della conoscenza o della verità.
Il nome più proprio è il nome ebraico Jahvè, contrazione da ehièh escer ehièh «Colui Che È». Nella Bibbia Dio nomina se stesso e si definisce: «Io Sono». Dunque Dio, conclude S.Tommaso, è «lo stesso essere per sé sussistente» (ipsum esse per se subsistens).
Una volta che abbiamo chiamato Dio ente supremo, oppure, come fa S.Anselmo: «ciò di cui nulla si può pensare di maggiore» (id quo nihil maius cogitari potest), oppure, come fa il Catechismo di S.Pio X, «l’ente perfettissimo», possiamo dire: certo, un ente di tal fatta è immaginabile, è ipotizzabile, non è impossibile.
Ma esiste? Come facciamo a saperlo? Come è stato ottenuto questo concetto? C’è qualcosa di reale, di esistente, che possiamo nominare col nome Dio? La risposta è sì, perché, interrogandoci sulle cause delle cose, scopriamo che esiste effettivamente un ente supremo e perfettissimo, massimo, altissimo ed ottimo, la causa prima.
Se dunque chiamiamo Dio l‘ente supremo e perfettissimo, dobbiamo dire che avendo scoperto e dimostrato l’esistenza di una causa prima, ci accorgiamo che questa causa non può essere se non ciò che chiamiamo Dio, ente supremo. Infatti, dire ente supremo, altissimo o perfettissimo e dire causa prima è la stessa cosa.
Per questo S.Tommaso, dopo aver dimostrato che esiste una causa prima , dice che questa è Dio e la può chiamare Dio, partendo dal fatto che con la parola Dio intendiamo l’ente supremo e la causa prima è appunto l’ente supremo.
Abbiamo dunque la parola Dio e il concetto di Dio. Con la parola significhiamo il concetto e col concetto la realtà di Dio. Ebbene, quando l’ateo dice che Dio non esiste, intende dire che Dio non è una realtà, ma una semplice immaginazione, è un ente immaginario e puramente mentale, senza riscontro nella realtà esterna, un’entità mentale inventata dall’uomo. Per l’ateo, il teista crede esistente qualcosa che non esiste, per cui scambia la realtà con l’immaginazione.
Tutti sanno che Dio c’è
La ragione umana normalmente funzionante, spontaneamente e necessariamente, come ha esperienza delle cose, come si accorge che esse sono causate, ossia appena percepisce l’effetto, s’interroga sulla sua causa sufficiente e proporzionata, ossia dall’effetto risale alla causa.
Kant non riesce a dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio perché parte da un concetto sbagliato di ragione, cioè da una ragione che non riesce ad andare al di là dei fenomeni, non sa applicare il principio di causalità partendo dall’esperienza delle cose ed elevandosi a quella dello spirito, giacchè Dio è spirito.
Come dice invece S.Paolo, la nostra ragione, considerando le opere di Dio, da queste risale alle perfezioni invisibili di Dio contemplandole con l’intelletto (cf Rm 1,20).
Oppure, come dice il libro della Sapienza, «dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore» (Sap 13,5). Si tratta di risalire «dai beni visibili a Colui che è», cioè di capire che l’ente visibile è la prova dell’esistenza di Colui che esiste per essenza. Si tratta di risalire dalle opere all’artefice.
Ciò vuol dire che secondo Sap 13,5 tutti sanno applicare il principio di causalità in senso analogico, sicché, come dalla considerazione di un’opera umana capiscono che esiste l’artefice che l’ha prodotta, così per analogia dalla considerazione delle cose capiscono che sono create da Dio. In tal modo secondo la Scrittura, tutti sanno che Dio esiste e che devono render conto a Lui del loro operato per ricevere il premio eterno o il castigo eterno.
In questo passo la Scrittura chiarisce innanzitutto quale ente merita di essere chiamato «Dio»: non basta il semplice ente visibile, non bastano l’uomo, il mondo, i viventi, la volta celeste. Questi enti non sono ancora Dio, non sono l’ente supremo, perché non sono la causa prima.
La Bibbia non parla di causalità divina come Aristotele, ma è chiaro che il verbo barà corrisponde al concetto analogico di causalità, che comprende sia il causare creato (fare) che il causare divino (creare).
In secondo luogo la Bibbia ci fa capire che la causa prima, cioè Dio và concepito come spirito, come persona dotata di intelletto e volontà, persona che concepisce un’opera, vuole produrre un’opera e la realizza con la sua libera volontà.
In terzo luogo la Bibbia ci fa capire che l’artefice divino produce l’opera nella sua totalità, ossia dal nulla, a differenza di noi uomini che produciamo le nostre opere servendoci di materiali precedenti o presupposti, che non abbiamo prodotto noi.
In quarto luogo la Bibbia fa presente che l’opera dell’artefice ha un’analogia, cioè assomiglia all’artefice stesso. Per questo dice che Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza, per cui conoscendo l’uomo si scopre Dio suo creatore.
Ciò comporta la possibilità di un dialogo fra l’uomo e Dio, così come dialogano tra di loro due persone. L’ateo si trova a dialogare solo con altri uomini e rifiuta il dialogo con Dio. Ma con quale saggezza, se Dio è il suo creatore e salvatore?
Occorre però non esagerare la stima per l’uomo e non credere che egli stesso sia Dio. L’ateismo, come per esempio quello di Marx, può configurarsi come una falsa divinizzazione dell’uomo.
È un errore gravissimo, che conduce all’ateismo, credere che Dio sia contro l’uomo, così che gli impedisce con la sua legge di essere libero e legge a se stesso. L’ateo non capisce che la vera libertà sta proprio nell’obbedire a Dio, così come una macchina funziona bene quando fa ciò che ha stabilito il suo costruttore, anche se se ovviamente l’uomo è un agente libero e non meccanico.
S.Tommaso per dimostrare l’esistenza di Dio, introduce la questione del processo all’infinito: la ragione si domanda sulla causa della causa ed esclude che si possa andare all’infinito, per cui, come già aveva osservato Aristotele, bisogna fermarsi su di una causa prima. Ora – egli osserva – è vero che gli enti causati sono cause, ma per spiegare la totalità delle cose e delle cause, occorre una causa sufficientemente esplicativa, ossia una causa prima non causata. Dio causa tutto è non è causato da nessuno.
L’ateo pone solo cause causate e si accontenta di esse, come se fossero sufficientemente esplicative. Egli ferma o blocca la sua ragione a metà strada, impedendole di arrivare fino al temine del suo cammino, che è la scoperta di Dio, dove soltanto la ragione trova pace e piena soddisfazione.
Quanto alla Scrittura, non ci presenta la sottile questione del processo all’infinito, che non è strettamente necessaria. La Scrittura, che è fatta per tutti e non solo per i filosofi, va all’essenziale e ci mostra un cammino che tutti possono e debbono comprendere e percorrere. Essa cioè ci ricorda semplicemente che l’artefice produce un’opera, per cui, alla vista dell’opera noi comprendiamo che deve avere un autore che l’ha fatta. Tutto qui. Da qui la prima proposizione della Scrittura: Dio ha creato il cielo e la terra, ossia tutte le cose, tutto dipende da lui.
Una questione molto importante è sapere chi è e qual è, tra le proposte di varie religioni e filosofie, il vero Dio, colui che soltanto e pienamente merita di essere chiamato con questo nome unico e sacro, questo «nome al di sopra di ogni altro nome», come dice la Bibbia. È la questione dei nomi o attributi divini. In base a quale criterio giudicare?
Che cosa conviene e che cosa non conviene a Dio? Che cosa dobbiamo o possiamo dire di Lui e che cosa non dobbiamo o non possiamo dire? È la questione della teologia, del parlare di Dio. O forse è meglio tacere, come dicono Dionigi l’Areopagita, Heidegger e i buddisti? E se Dio parlasse di Se stesso?
Dio è solo in noi o anche in sé fuori di noi? Dio muta? Diviene? È solo spirito o anche materia? Vuole solo il bene o anche il male? Dio soffre? Dio può stare senza il mondo? Dio s’identifica col mondo? Produce necessariamente il mondo? Il mondo è l’apparire di Dio o Dio è distinto dal mondo? S’identifica con l’uomo? A seconda di come si risponde a queste domande sorgono concetti più o meno giusti o più o meno difettosi di Dio. L’ateo è colui che nega tutti gli attributi, perché ne nega il soggetto stesso.
Per la Bibbia l’ateo non è uno che non sa in buona fede che Dio esiste, né è uno che, per limiti intellettuali, non sa accorgersi mediante il ragionamento che Dio esiste. E non è neppure uno che si sbaglia involontariamente in questo ragionamento scambiando senza volere, per errore, la creatura col creatore. No; se lo fa, lo fa apposta, perché gli piace più la creatura che Dio.
Ciò non significa che non esistano errori concernenti Dio. Tuttavia ognuno è in grado di correggersi da sé per potersi presentare davanti al giudizio di Dio, dove lo riconoscono nella sua identità – Dio è perfettamente riconoscibile, identificabile e distinguibile da qualunque altro ente – senza rischio di far confusione o di scambiarlo per un’altra persona o entità.
Nella storia del pensiero umano esistono bensì tante dottrine ingannevoli su Dio, tante forme di ateismo, lo scetticismo, l’idealismo, il materialismo, l’idolatria, il politeismo, il panteismo, il panenteismo, l’agnosticismo. Ma nel nostro intimo ognuno di noi è in rapporto con Dio, Lo ami o non Lo ami.
Una sottile ma importante questione di discernimento di ordine eminentemente pratico in campo teologico è quella di saper distinguere l’ispirazione divina da quella diabolica. Il diavolo stesso può suggerire la validità dell’ateismo. L’ateo crede di seguire la propria coscienza, ma in realtà può capitare che egli segua il demonio senza accorgersene. Gli dèi dei pagani, secondo la Scrittura, sono demòni, Daimon in greco vuol dire sia «Dio» che demonio. L’idolatria, per la Scrittura, è sì un’adorazione della creatura al posto del creatore, ma è chiaro che dietro a ciò c’è l’adorazione del demonio.
L’ateismo non è tanto una convinzione intellettuale, quanto piuttosto una scelta pratica. L’ateo è il primo a sapere che la sua pretesa dimostrazione che Dio non esiste non tiene. Quello che possiamo fare è soltanto distogliere volontariamente lo sguardo da Lui, non volerlo vedere e non volerlo incontrare. Il suo paradiso non interessa all’ateo. L’inferno non è altro che il luogo dove vanno coloro che vogliono star lontani da Dio come si fugge una persona odiosa.
Nessuno ignora in buona fede che Dio esiste, così da poter essere scusato nel giorno del Giudizio per non averlo saputo, giacché la Bibbia ci insegna, come abbiamo visto, che tutti veniamo a saperlo con un ragionamento molto semplice, al quale ci indirizzano il libro della Sapienza e S.Paolo.
Infine bisogna distinguere una conoscenza esplicita di Dio da una conoscenza implicita. Chi ama e serve sinceramente il prossimo secondo i suoi reali bisogni, anche se non ha un’idea chiara di Dio, è già gradito a Dio, come appare evidente da Mt 25, 31-46. Viceversa, uno può sapere benissimo che Dio esiste e conoscere tutti gli attributi divini come li conosceva S.Tommaso, ma se non ama il prossimo, non solo non gli serve a niente, ma è punito con maggiore severità.
La figura più significativa di ateo è certamente Karl Marx. Il suo ateismo si può riassumere in due punti. Il primo è che l’uomo non ha bisogno di alcun Dio che lo aiuti a liberarsi dalle sue miserie, ma è perfettamente capace di liberarsi da sé con le proprie forze dalla propria schiavitù, perché l’uomo stesso è Dio, essere da sè sussistente («l’uomo è Dio per l’uomo»). L’essere assoluto, che la Bibbia assegna a Dio, Marx lo assegna all’uomo.
E il secondo è l’ipocrisia di occuparsi degli oppressi non per misericordia e compassione, ma perché per lui l’oppresso è l’uomo oppresso da Dio, per cui suo intento è liberare l’uomo da Dio. Il Dio della religione, infatti, per Marx, è un’entità ultraterrena, celeste, onnipotente ma inesistente ed immaginaria, inventata dagli oppressori (preti e capitalisti) per mantenere l’oppressi nella condizione di oppressi, in modo che non si ribellino, ma portino pazienza nella speranza di andare al momento della morte in paradiso, dove saranno consolati.
Fonte: Traditio.
La “grande domanda” e le “non ragioni” degli atei
di Dario Antiseri
Vita e Pensiero, 101 (2018), n. 4, pp. 88-96
«La scelta fra l’esistenza e l’inesistenza di Dio» – ha scritto Luigi Pareyson – «è un atto esistenziale di accettazione o ripudio, in cui il singolo uomo decide a suo rischio se per lui la vita ha un senso oppure è assurda, giacché a questa opzione si riduce in fondo e senza residuo quel dilemma. Tale opzione è eminentemente religiosa, anche quando si risolva in senso negativo, perché il ripudio di Dio è così strettamente legato all’accoglimento che in alternativa si può farne, che ne conserva sempre un’inconsapevole nostalgia. La filosofia, poi, in quanto sopravviene a scelta già fatta, non ha più voce in capitolo, non certo per affermare l’esistenza di Dio, ma nemmeno per negarla, perché anche il ripudio di Dio non è frutto d’un ragionamento, ma atto profondo e originario della persona. D’altra parte la filosofia non ha il compito di dimostrare l’esistenza di Dio, perché essa non estende la conoscenza a nuovi ambiti di realtà, ma riflette su esperienze esistenziali: il suo compito non è dimostrativo, ma ermeneutico».
E va da sé che il credente che non ha dubbi non ha fede. Hanno dubitato gli Apostoli. La “notte dell’anima” è esperienza di grandi anime mistiche.
«L’uomo religioso» – è ancora Pareyson a parlare – «può capire il dubbio, che non è se non il risvolto della sua fede, un aspetto essenziale di essa o un suo momento interno, giacché la fede è ben lungi dall’essere un possesso tranquillo, sicuro e incontrastato, favorito dalla tradizione e ribadito dall’abitudine, ché anzi spesso è lotta durissima e tensione lancinante, appena lenita dalla consapevolezza ch’essa è cosa vivente e vivificatrice, bastevole a ispirare e riempire una vita intera».
Dunque, se non hai dubbi non hai fede. Ma l’ateo troppo sicuro di sé usa o abusa della ragione? Quale prova è disponibile per poter sostenere che il tutto-della-realtà è rigorosamente e convincentemente riducibile a quella realtà di cui parla e può parlare la scienza? L’ateismo non è una teoria scientifica. E non è certamente la scienza, finché la ricerca rimane nel suo legittimo ambito di azione, a negare la possibilità di una realtà trascendente.
E c’è di più. Difatti, se la fede conduce al mistero di un Dio creatore, l’ateo non si trova pure lui di fronte al fatto misterioso di un grumo di materia originario da cui si è sviluppata e si sviluppa la storia dell’universo? Questo grumo di materia si è autocreato?
Come sostiene Wittgenstein nel suo Tractatus Logico-philosophicus, l’esistenza dell’universo è un fatto misterioso, suscita uno stupore abissale. La fisica sposta la “grande domanda” – la domanda metafisica –, non la elimina. Così come non la elimina, anzi la genera, la teoria dell’evoluzione della vita. Nessuno può negare che la scienza – con le sue domande e le sue risposte e la sua storia – non abbia alcun valore perché costruita da un essere che avrebbe per antenato una “scimmia”. Ma questa “scimmia” rimessa a nuovo, oltre che porsi problemi scientifici, si è posta e seguita a porsi il problema del “senso”, del “senso del tutto”, un problema eminentemente religioso. E, allora, con quali argomenti lo scientista evoluzionista potrà affermare insensatezza, illusorietà della “richiesta di senso”, cioè della domanda religiosa?
La realtà è che la teoria evolutiva della vita non solo non cancella il problema religioso, ma lo fa emergere. Scrive Darwin: «Il sentimento di devozione religiosa è sommamente complesso perché consta di amore, di compiuta sommissione a un essere superiore elevato e misterioso, di un forte sentimento di dipendenza, di timore, di riverenza, di gratitudine, di speranza nell’avvenire, e forse di altri elementi. Nessuna creatura potrebbe provare un’emozione tanto complessa, senza che le sue facoltà morali e intellettuali abbiano raggiunto un certo grado di elevatezza».
Max Weber, al contrario, pone un aut-aut tra la sfera dei valori della scienza e quella dei valori religiosi.
Ma la situazione è proprio questa? Un mondo disincantato dalla scienza, letto cioè dalle teorie scientifiche, è un mondo che implica di necessità la negazione di un Creatore ovvero è un mondo in cui dalla fede del credente vengono strappate via le croste di ataviche superstizioni? Un mondo senza ninfe dietro a una sorgente o senza un irritato Giove che lancia fulmini sugli uomini è davvero un universo in grado di proibire senza appello ogni traccia di Trascendenza? E poi – questione di maggior rilievo – è la scienza che desacralizza il mondo ovvero il mondo, per essere investigato scientificamente, dev’essere un mondo già desacralizzato, disincantato?
Ecco, a tal riguardo, la fondamentale proposta di Max Scheler: «Bisogna, innanzi tutto, farla finita con l’errore molto condiviso che la scienza positiva (e il suo movimento progressivo) abbia mai potuto e mai possa, fintanto che essa rimane nei suoi limiti essenziali, torcere un sol capello alla religione. Questa tesi, sia essa sostenuta da credenti o da increduli, è sempre ugualmente falsa».
La scienza, fintanto che rimane nei suoi limiti essenziali, non ha mai potuto e mai potrà torcere un solo capello alla religione.
La situazione, però, appare ben diversa se ci spostiamo nel campo della filosofia. Senza spingersi troppo lontano nel tempo, vediamo, per esempio, che negli ultimi due secoli movimenti filosofici influenti e ampiamente diffusi hanno costituito vere truppe d’assalto contro la religione, con la pretesa di poter cancellare qualsiasi spazio della fede nella Trascendenza.
Fu Bruno Bauer a dire che con Hegel «l’Anticristo è venuto e si è rivelato». D’altro canto, se per le varie forme di materialismo (di ieri e di oggi) la Trascendenza è illusione, per i positivisti Dio è un’ipotesi inutile.
Non illusione o inutile, ma dannosa per l’uomo è, ad avviso di Marx, la fede in Dio: «La religione è il sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo spietato […]. Essa è l’oppio del popolo». E «una nevrosi ossessiva universale» vede Freud nella religione.
Dato che Dio non esiste – scrive Sartre ne L’esistenzialismo è un umanismo – «noi non troviamo innanzi a noi dei valori e degli ordini in grado di legittimare la nostra condotta. Così non abbiamo né dietro a noi, né dinanzi a noi, in un dominio luminoso di valori, delle giustificazioni o delle scuse. È ciò che esprimerò con le parole che l’uomo è condannato ad essere libero». L’uomo è una passione, ma «una passione inutile». E dopo l’esistenzialismo ateo, la posizione contraria, quella strutturalista, per la quale non solo “Dio è morto”, ma morto è anche l’uomo.
Michel Foucault: «L’uomo è un’invenzione che l’archeologia del nostro pensiero non ha difficoltà ad assegnare ad un’epoca recente. E forse neanche a dichiararne prossima la fine. Ai nostri giorni, piuttosto che l’assenza o la morte di Dio, viene proclamata la fine dell’uomo. L’uomo sta per scomparire».
E semplicemente insensate, prive di qualsiasi senso letterale, sarebbero, per i neopositivisti del Circolo di Vienna, le proposizioni che parlano di “Dio”, dell'”anima immortale” o di “Provvidenza”. Questi concetti e gli asserti che li inglobano sarebbero puri “non-sensi”, in quanto concetti e asserzioni non verificabili empiricamente, vale a dire non traducibili o riducibili al linguaggio “cosale” della fisica. «Né Iddio né alcun diavolo» – dirà Carnap – «potranno mai darci una metafisica». E per Ayer gli asserti di fede, insieme alle teorie metafisiche, «sono soltanto materiale per lo psicoanalista». Ma se «la grande filosofia è scomparsa», irreprimibile resta la “grande domanda”, la richiesta di senso, come scriveva Norberto Bobbio: «Richiesta di senso che significa bisogno di dare un senso alla propria vita, alle nostre azioni e a quelle di coloro verso i quali dirigiamo le nostre azioni, alla società in cui viviamo, al passato, alla storia, all’universo intero».
Non va cercata nella scienza la risposta alla “grande domanda” e la filosofia pone la “grande domanda” senza poter dare la risposta. La “domanda ultima” per Bobbio «rimane senza risposta, o meglio rinvia a una risposta che mi par difficile chiamare ancora filosofica». E, in direzione analoga, Armando Rigobello: «Fallita la via della razionalità piena e totale propria delle metafisiche moderne, insoddisfatti per la risposta vera ma parziale ed astratta della metafisica classica greca (i problemi dell’esistenza, del dolore, della morte, della salvezza personale non possono trovare soluzioni in forme astratte di pensiero), ci rimane la possibilità di pervenire ad una risposta situata su di un piano diverso da quello in cui è stata formulata la domanda. Si tratta della risposta non omogenea alla domanda».
La domanda filosofica è una domanda che attende una risposta non omogenea a se stessa. A un problema di fisiologia non risponde uno studioso di epigrafia, né per risolvere problemi di filologia – per esempio: l’autenticità o meno di un testo di Boccaccio – ci rivolgeremo a un chirurgo plastico. Eppure, la domanda filosofica esige una risposta «che par difficile chiamare ancora filosofica», una risposta «non omogenea a se stessa», vale a dire una risposta «non filosofica, ma di altra natura».
E di fronte a queste considerazioni sorge il fondato sospetto che la domanda filosofica non sia propriamente un “problema” da soddisfare con una “spiegazione”. Come posto in evidenza da Gabriel Marcel e da Martin Heidegger, e ancora prima da Agostino, la domanda metafisica è una domanda in cui tutti i dati (a cominciare da colui che se la pone) diventano incognite. E una domanda con tutte incognite non è un problema, non è interrogatio, è piuttosto rogatio: una invocazione di senso ultimo non costruibile da mani umane.
Per Wittgenstein «noi sentiamo che persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto una risposta, i nostri problemi vitali non sarebbero nemmeno sfiorati». L’intento di fondo del “primo” Wittgenstein fu quello di delineare il dicibile – il dicibile dalla scienza – per proteggere l’ineffabile, quello che la scienza non può dire: l’etico e il religioso.
Commenta Paul Engelmann: «Tutta una generazione di allievi poté considerare Wittgenstein un positivista, poiché egli aveva qualcosa di enorme importanza in comune con i positivisti: aveva tracciato la linea di separazione fra ciò di cui si può parlare e ciò di cui si deve tacere, cosa che anch’essi avevano fatto. La differenza è soltanto che essi non avevano niente di cui tacere. Il positivismo sostiene – e questa è la sua essenza – che ciò di cui possiamo parlare è tutto ciò che conta nella vita. Invece Wittgenstein crede appassionatamente che tutto ciò che conta nella vita umana è proprio ciò di cui, secondo il suo modo di vedere, dobbiamo tacere. Quando ciononostante egli si prende immensa cura di delimitare ciò che non è importante, non è la costa di quell’isola che egli vuole esaminare con tanta meticolosa accuratezza, bensì i limiti dell’Oceano».
Una sintesi delle precedenti considerazioni sulla natura della “grande domanda”, vista quale rogatio e non come interrogatio e sulle vie di Pascal, Kierkegaard e Wittgenstein, è come se si trovasse rinvenibile in una pagina de I racconti dei Chassidim in cui Martin Buber narra del Rabbi Mendel di Kozk. Costui «stupì alcuni uomini dotti che erano suoi ospiti con questa domanda: “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui: “Che dite? Se tutto il mondo è pieno della sua gloria?”. Ma egli rispose da sé alla propria domanda: “Dio abita dove lo si fa entrare”».
Ed è Pavel Aleksandrovic Florenskij il pensatore che incarna, interpreta ed esprime come nessun altro sia la complessità e la varietà della cultura del XX secolo, sia l’anima del popolo russo nei suoi aspetti più profondi e specifici. Filosofo della scienza, matematico, fisico, ingegnere elettronico, teorico dell’arte e di filosofia del linguaggio, studioso di estetica, di simbologia e semiotica, filosofo della religione e teologo, «è veramente una figura la cui esistenza può essere legittimamente considerata emblema degli splendori e delle miserie del Novecento», come scrive Silvano Tagliagambe.
Condannato alla pena di morte dalla trojka speciale di Leningrado, venne fucilato nella notte dell’8 dicembre 1937 in un bosco non lontano dalla città. Ed ecco il commento di Sergej Bulgakov allorché venne a sapere della morte di Pavel Florenskij: «Di tutti i contemporanei che ho avuto la ventura di conoscere nel corso della mia lunga vita, egli è il più grande. E tanto più grande è il delitto di chi ha levato la mano su di lui, di chi lo ha condannato a una pena maggiore della morte, a un lungo e tormentoso esilio, a una lenta agonia […]. Padre Pavel per me non era solo un fenomeno di genialità, ma anche un’opera d’arte[…]. L’attuale opera di padre Pavel non sono più i libri da lui scritti, le sue idee e parole, ma egli stesso, la sua vita».
Scienziato di prim’ordine, Florenskij, sviluppando una originale teoria del simbolo, ha sin dagli inizi preso le distanze dalla pretesa di rinserrare l’esistenza nell’ergastolo dello scientismo. Quello di Florenskij – ha scritto Natalino Valentini – è esattamente «un ardito tentativo di epistemologia del simbolo». È attraverso il simbolo che Florenskij trova la via per superare la scissione tra mondo visibile e mondo invisibile, tra realtà empirica e realtà ulteriore, tra il mondo e Dio. Egli scrive nella prima delle dodici lettere che compongono La colonna e il fondamento della verità: «Questo nostro mondo si cruccia nelle contraddizioni se non vive delle energie dell’altro mondo. Negli umori, tendenze contrastanti; nella volontà, desideri contrari; nei pensieri, idee contraddittorie. Le antinomie frazionano tutto il nostro essere, tutta la vita creata. Dappertutto e sempre contraddizioni! Viceversa la fede che vince le antinomie della coscienza e tra esse riesce a respirare, ci offre il fondamento di pietra sulla quale possiamo lavorare per superare le antinomie della realtà. Ma come accedere a questa pietra della Fede?».
È nella fede, dunque, che si trova il fondamento per superare tutte le nostre lacerazioni e la scissione tra mondo visibile e realtà ulteriore. Da qui ben si comprende come l’esplorazione di tutte le possibili vie di interazione e rapporto dialogico tra realtà terrena e realtà trascendente costituisca il nucleo teorico della prospettiva filosoficoteologica di Florenskij. È nel culto, nella preghiera, nell’esperienza mistica (sia artistica sia onirica) – vale a dire nelle varie manifestazioni del simbolo – che Florenskij trova «una finestra nella nostra realtà, una breccia nell’esistenza terrena dalla quale irrompono le correnti dell’altro mondo nutrendola e rinvigorendola. [Così], pur essendo, da un punto di vista materiale, essenzialmente terreno nella sua caratterizzazione particolare, all’interno della visione propria del culto, nell’aura di mistero che lo circonda, avviene e prende forma qualcosa d’altro, di santo, di consacrato, di trasformato, di transustanziato; è il mistero stesso».
Così, per esemplificare, è certo che un quadro, come realtà fisica, consiste nella cornice, nei colori, nella tela, ma esso è anche qualcosa di più: è una finestra su di un significato. E sta qui la ragione per cui a proposito delle icone si può parlare di una «teologia in immagine».
Il simbolo rinvia sempre ad altro, a un “altro superiore”. Scrive Florenskij ne La venerazione del nome come presupposto filosofico: «Il simbolo è un’entità che manifesta qualcosa che esso stesso non è, che è più grande e che perciò si rivela attraverso questo simbolo nella sua essenza. Il simbolo è una realtà la cui energia cresciuta insieme o, meglio, confluita insieme con un altro essere più prezioso rispetto a lui, contiene in sé quest’ultimo».
In Italia è stato Luigi Pareyson a sottolineare, più che altri, che il linguaggio concettuale è una violazione della trascendenza. «Il problema dell’esperienza religiosa» – scrive Pareyson – «non è il problema metafisico di Dio, come invece suppone chi ancora si chiede se Dio debba o non debba concepirsi come sostanza o causa o come altro che sia. Questo è, se mai, il “Dio dei filosofi”, al quale potrà essere – o, meglio, essere stata – interessata la filosofia, ma che non riguarda certo la religione.
Il Dio della religione è altra cosa: è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio vivente e vivificante, è un Dio a cui si dà del tu e che si prega, un Dio a cui si dice con trepidazione miserere mei e con disperazione ne sileas, a cui ci si rivolge domandando angosciati quare me repulisti, e supplicando con timore e tremore ne avertas faciem tuam a me, a cui nell’ora suprema ci si affida esclamando in manus tuas commendo spiritum meum ed implorando in te, Domine, speravi; non confundar in aeternum».
Per Pareyson «il Dio autentico dell’esperienza religiosa non è raggiunto dai concetti strettamente filosofici di Dio». È ben vero che tra i vanti maggiori e più frequenti della tradizione metafisica viene addotta la rappresentazione concettuale della divinità come superamento dell’antropomorfismo, vale a dire come purificazione dell’idea di Dio dai residui antropomorfici. Ma ecco che, di fronte a simile vanto, dinanzi alla pretesa metafisica di aver superato l’antropomorfismo, Pareyson annota che «non si può non restar colpiti dalla scarsa riuscita dell’impresa, giacché l’esito è per lo più il risultato in contrasto con le primitive intenzioni». Difatti: «Concepire Dio in termini concettuali significa definirlo in base a categorie elaborate dalla mente umana e attribuirgli proprietà che direttamente o indirettamente inseriscono all’uomo, sia pure estremamente affinate e astratte, e sia pure pensate in senso eminente ed elevate al vertice. In tal senso concepire Dio come Essere, Principio, Causa, Pensiero, Ragione, Valore, Persona, Bontà, Provvidenza, e così via, è pur sempre un kat’anthropon legein che conferisce a tali concezioni della divinità un carattere sostanzialmente, anche se larvatamente, antropomorfico».
Due sono i tipi di antropomorfismo che Pareyson distingue: «Quello concettuale, nascosto e taciuto, governato dal principio di esplicitazione oggettivante, e quello simbolico, consapevole e dichiarato, dominato dalla sollecitudine dell’inesauribilità». L’antropomorfismo genuino e rivelativo, aperto a una verità trascendente che esso sa di non poter mai oggettivare è l’antropomorfismo «schietto e genuino, aperto e riconosciuto del simbolo e del mito». Talché se il Dio dell’esperienza religiosa non è raggiunto dai concetti strettamente filosofici, «può nascere il progetto di cercarlo e la prospettiva di trovarlo in una zona più profonda e originaria del pensiero; là dove nessuna perplessità o esitazione può nascere all’idea che per il Dio dell’esperienza religiosa assai più che i concetti specificamente filosofici appaiono adeguati e significativi i simboli della poesia e le figure antropomorfiche del mito, quali si trovano, ad esempio, nelle teofanie sensibili dell’Esodo e dei Salmi, nei racconti della Genesi e dei libri apocalittici, nelle grandiose e fiammeggianti visioni dei profeti».
Ed ecco il corollario – di enorme rilevanza – che segue da quanto detto: «L’importante è non demitizzare l’antropomorfismo dichiarato e genuino, ma demistificare l’antropomorfismo occulto e deteriore».
Per concludere, non ci sono forse buone ragioni per sostenere che tra la teoria del simbolo di Florenskij e quella di Pareyson è presente una più che consistente «aria di famiglia»?