Di mamma ce n’è una sola: no all’utero in affitto

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Martedì 5 novembre è stato presentato a Montecitorio il Comitato ‘Di mamma ce n’è una sola’, contro la pratica dell’utero in affitto, alla presenza dell’onorevole Eugenia Roccella, vicepresidente della commissione Affari sociali della Camera e Presidente del comitato, Olimpia Tarzia, coordinatore nazionale del comitato, Assuntina Morresi, Francesca Romana Poleggi e Francesco Agnoli, componenti nazionali.

Il comitato nasce per svolgere un’opera di sensibilizzazione, di denuncia e di contrasto del triste fenomeno dell’ ‘Utero in affitto’ . Il manifesto si prefigge di svolgere un’opera di sensibilizzazione verso tale fenomeno per mettere a conoscenza l’opinione pubblica della posta in gioco; avviare le opportune iniziative culturali e politiche per contrastare qualsiasi tentativo di legalizzare anche in Italia la pratica dell’utero in affitto; denunciare e contrastare tale attività nei Paesi dove il mercato della maternità su committenza è legale e già affermato, segnalando ogni abuso compiuto sulle donne; garantire pari dignità alle donne dei Paesi più poveri, principali bersaglio di speculatori senza scrupoli; tutelare la libertà di ogni donna di portare avanti la gravidanza e tenere con sé il bambino partorito, come diritto naturale e fondamentale che precede qualunque legge e qualunque contratto; riaffermare il diritto delle donne a non essere costrette a mercificare il proprio corpo; attuare efficaci politiche familiari, sanitarie ed educative per la prevenzione e la cura dell’infertilità e della sterilità; contrastare il giro d’affari miliardario sulla pelle delle donne legato al mercato speculativo della pratica dell’utero in affitto.

Infatti le parole: ‘utero in affitto’, ‘gestazione conto terzi’, ‘gravidanza su commissione’, ‘maternità surrogata’ sono alcune espressioni per raccontare un fenomeno in espansione in tutto il mondo, quello di donne che, a pagamento, affrontano una gravidanza e un parto sapendo che poi cederanno il neonato a qualcuno che glielo ha commissionato, più o meno legalmente:

“La donna che resta incinta diventa un mero contenitore del bambino che nascerà; in questo caso non si usa mai la parola feto o tantomeno l’espressione ‘prodotto del concepimento’, perché il nascituro ha un grandissimo valore intrinseco e viene riconosciuto immediatamente come essere umano: è fortemente voluto e commissionato in quanto bambino, e non come embrione, feto, la sua gravidanza è un servizio per cui è pagata, controllata dal punto di vista sanitario e della nutrizione, e soprattutto durante i nove mesi le viene spiegato che in quella pancia che sta crescendo non c’è il suo bambino, ma un estraneo, qualcuno che già appartiene ad altri perché sono altri che l’hanno commissionato su contratto, e sarà a questi altri che lei lo cederà, immediatamente dopo il parto”.

Secondo il Comitato, che ha realizzato alcune interviste, sono sempre le donne indigenti a subire queste ‘pressioni’, in quanto la maternità in affitto comporta sempre forme di pagamento, esplicite nei casi della forma cosiddetta ‘commerciale’, surrettizie, sotto la voce ‘rimborso spese’ per quella ‘altruistica’. Infatti nei Paesi ‘terzi’, in cui le donne povere sono spesso anche analfabete e poco consapevoli di avere dei diritti, la gravidanza su commissione sta diventando un vero e proprio business, a favore di coppie o singoli benestanti provenienti soprattutto dal mondo occidentale.

L’India, una delle mete preferite dagli occidentali, ancora non ha una legge che regola questo fenomeno, ma, da poco, solo alcune limitazioni sui visti di ingresso a questo scopo, e non si conosce neppure il numero esatto di cliniche coinvolte. Alcune stime parlano di un indotto complessivo di due miliardi di dollari l’anno, con un migliaio di cliniche non regolamentate. Il costo di una maternità in affitto va dai 10.000 ai 35.000 dollari, a fronte di 80.000-100.000 dollari negli USA.

Per i Paesi europei sono disponibili alcuni dati offerti da uno studio presentato recentemente dal Directorate General for Internal Policies del Parlamento europeo. In Gran Bretagna, per esempio, dove la ‘maternità conto terzi’ è regolata dal 1985, dal 1995 al 2007 ogni anno sono stati rilasciati dai 33 ai 50 Parental Order, cioè atti specifici con cui la responsabilità legale del neonato viene trasferita dai genitori in affitto (cioè la donna che ha partorito e il suo partner, se c’è) a quelli committenti. In Francia la ‘maternità conto terzi’ è vietata, ma un’associazione che offre questo servizio con donne residenti all’estero ha dichiarato che il numero di bambini nati in questo modo, da donne straniere (Belgio, Gran Bretagna e Grecia, ma anche Canada, Ucraina, India e Russia) è in crescita: 120 nel 2007, 125 nel 2008, 150 nel 2009, 170 nel 2010.

Altri studi, sempre per la Francia, riferiscono invece che il numero dei genitori ricorsi a questa procedura è superiore: 300 nel 2007 e nel 2008, 400 nel 2009, 500 nel 2010 e 700 nel 2011. Nei Paesi europei a vietare esplicitamente e in generale queste pratiche sono Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Malta, Portogallo, Spagna. In altri stati è proibito il pagamento esplicito (Danimarca, Irlanda, Ungheria, Grecia, Olanda), ma in alcuni, come in Grecia e Olanda, al tempo stesso è facilitata la cosiddetta ‘gravidanza surrogata altruistica’ che consente forme mascherate di pagamento.

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