Ruini: la visione di Chiesa di Giovanni Paolo II e la riforma che non ha potuto fare
Lunedì mattina 4 novembre, festa di San Carlo Borromeo a Roma nella Chiesa di San Stanislao a Roma si è parlato di Giovanni Paolo II. Occasione la presentazione del libro nato dal colloquio tra Gianfranco Svidercoshi e il cardinale Dziwisz. “Ho vissuto con santo” è il titolo del volume edito da Rizzoli e dal 6 novembre in libreria. Tra i relatori il cardinale Camillo Ruini per anni collaboratore di Giovanni Paolo II che ha parlato della “visione” di Chiesa di Papa Wojtyla. Ecco il testo del suo intervento:
Prima di parlare del progetto di Chiesa di Giovanni Paolo II, come mi ha chiesto il Dottor Svidercoschi, vorrei dire qualche parola sull’impressione generale che ho ricevuto dalla lettura di questo nuovo libro del Card. Dziwisz, “Don Stanislao”, redatto in forma di conversazione con Svidercoschi come Una vita con Karol, che lo stesso Cardinale aveva pubblicato all’inizio del 2007. Quel libro mi aveva aiutato ad entrare nella personalità, nella vita e nella missione di Giovanni Paolo II, al di là di ciò che avevo sperimentato e toccato con mano negli oltre vent’anni del mio rapporto diretto con lui. Il tema del nuovo libro è sostanzialmente il medesimo del primo, Karol Wojtyła-Giovanni Paolo II, perciò la domanda che nasce spontaneamente è: non sarà una ripetizione, o magari l’approfondimento di un aspetto, quello della santità del Papa polacco, in vista della sua imminente canonizzazione? La risposta è negativa: il nuovo libro riprende globalmente il tema Karol Wojtyła-Giovanni Paolo II e lo fa in piena continuità con il libro precedente, eppure lo fa in modo nuovo, con quella maturazione e quell’approfondimento che sono il frutto di otto anni vissuti sempre “con Karol”, ma in maniera diversa, con “nostalgia costruttiva”, piena di gratitudine e di speranza (pp. 14-15), e con un senso acuto della vera eredità che Giovanni Paolo II ci ha lasciato e che si può condensare nella formula, solo apparentemente vaga e astratta, “voglia di infinito” (p. 16). Questo dell’eredità da far fruttificare, che anzi ha già largamente portato frutto, dell’eredità come dono ma anche come compito, è il vero senso del nuovo libro. Un libro che aiuta a fare un ulteriore passo in avanti nella comprensione di Papa Wojtyła e nella comunione con lui.
Vengo ora al suo “progetto di Chiesa”: espressione che probabilmente non avrebbe convinto del tutto Giovanni Paolo II, perché più che di un suo progetto si trattava e si tratta di una realtà in cammino, che è nata, cresce e si rinnova a partire da Gesù di Nazaret, per iniziativa di Dio Padre e nella forza dello Spirito Santo. Comunque, al di là delle nostre parole, il Cardinale Stanislao già nelle pagine iniziali (18-21), e poi soprattutto in quelle finali (141-145), riassume in termini molto precisi questo progetto, la sua origine, la sua collocazione storica e il suo dinamismo interiore. Ma il medesimo progetto riaffiora e si concretizza sempre di nuovo lungo la trama del libro, che come il precedente ha un andamento piuttosto storico e cronologico, ma in maniera meno marcata, lasciando più spazio all’approfondimento tematico.
Provo dunque a presentare gli aspetti principali del progetto di Chiesa di Karol Wojtyła-Giovanni Paolo II, come risulta dal libro, letto inevitabilmente anche alla luce dell’esperienza personale che ho avuto con questo grandissimo Papa. E’ un progetto che Karol Wojtyła aveva già dentro prima della sua elezione alla Cattedra di Pietro. La sua prima radice sta infatti in quel rapporto con Dio a cui aveva saputo dare forma poetica già a 18 anni, nell’inno Magnificat, dove ringrazia Dio per aver reso angelica la sua giovinezza ed aver scolpito da un tronco di tiglio una forma robusta, quale stupendo e onnipotente intagliatore di santi. Poi, nella sua esperienza di vita e nel suo ministero di sacerdote e di vescovo, aveva maturato quel “patrimonio di fede, di dottrina, di visione della Chiesa, di attività pastorale, e al tempo stesso di storia, di cultura, di modo di guardare il mondo e gli uomini”, che è l’eredità che Giovanni Paolo II ha portato a Roma dalla sua patria (p. 49). In realtà questa eredità polacca era stata già riplasmata dall’esperienza del Concilio Vaticano II, che il vescovo Wojtyła aveva vissuto con straordinaria intensità, coinvolgimento e condivisione: la Costituzione Lumen gentium gli prospettò un’immagine di Chiesa più comunitaria e carismatica, più aperta ai laici, la Gaudium et spes indicò la strada per la ripresa del dialogo con il mondo moderno e per il coinvolgimento della Chiesa nella realtà concreta e quotidiana degli uomini, la Dichiarazione Dignitatis humanae sanzionò un cambiamento radicale in rapporto alla difesa della persona umana, della sua dignità e libertà, dei suoi diritti (p. 27). La novità del pontificato di Giovanni Paolo II, il Papa “chiamato da un paese lontano…, ma sempre così vicino per la comunione nella fede e nella tradizione cristiana”, “figlio di una nazione… che alla Sede di Roma è rimasta sempre fedele”, sta proprio nell’innesto di questa eredità nella guida della Chiesa universale (p. 49).
Il contenuto dell’ecclesiologia incarnata da Giovanni Paolo II ha un forte presupposto cristologico, e proprio così teologico e antropologico, formulato esplicitamente all’inizio della Dives in misericordia, l’enciclica nella quale c’è “il senso profondo della vita di Karol Wojtyła, della sua audacia apostolica, della sua santità” (p. 129). Poiché con la sua incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo, è profondamente errato continuare a dividere, se non a contrapporre, teocentrismo e antropocentrismo, come hanno fatto varie correnti del pensiero umano e anche – in senso opposto, cioè a favore del teocentrismo, ma alla fine convergente – importanti tendenze della teologia cattolica. Al contrario, nella prospettiva di Giovanni Paolo II la Chiesa, seguendo Cristo, ha cercato di congiungerli in maniera organica e profonda, ma anche nuova e coraggiosa, tanto che Giovanni Paolo II fu accusato da alcuni ambienti ecclesiastici di aver ceduto alla “svolta antropologica”, vista come abbandono della centralità di Dio. Si è trattato però di un grosso fraintendimento: la congiunzione fra teocentrismo e antropocentrismo supera in radice, certamente, la visione solo negativa e catastrofica della modernità antropocentrica, ma lo fa a condizione di cambiare segno all’antropocentrismo, rendendolo non più alternativo ma tendenzialmente coincidente con il teocentrismo (pp. 51-52). Così Giovanni Paolo II già all’inizio del pontificato ha anticipato ciò che diventerà evidente a partire dagli anni ’90 e che costituirà probabilmente il cuore del confronto culturale del nuovo secolo: l’antropocentrismo non può reggere se si pretende autosufficiente; solo fondandosi in Dio può evitare di essere riassorbito nella natura infraumana, in concreto nell’evolversi inconsapevole della materia-energia.
L’ecclesiologia di Giovanni Paolo II è pertanto nettamente cristocentrica: la Chiesa non è fine a se stessa ma ha la sua ragion d’essere in Cristo e quindi nella dedizione all’uomo. Non è dunque una Chiesa dalla struttura verticistica, monolitica e rigidamente istituzionalizzata. E’ invece “casa e scuola di comunione”, una Chiesa-famiglia che, incarnandosi nella storia quotidiana, mette armonicamente insieme unità e molteplicità, identità e diversità (pp. 58-59).
Il Cardinale Dziwisz contraddice con forza, e con ragione, l’idea che Giovanni Paolo II sia stato un Papa rigido e restauratore. Era certamente fermissimo nel difendere la fede e profondamente legato alla grande tradizione della Chiesa, ma nello stesso tempo aperto al dialogo con le nuove correnti teologiche e a un confronto costruttivo tra fede e ragione. Non si è tirato indietro di fronte alle sfide della società postmoderna, della sua complessità e pluralismo, ma ha cercato di correggerne “dal di dentro” i limiti e le preclusioni, chiudendo in ogni caso la porta alla “tentazione integralista” (p. 57). E’ stato così un grande testimone di speranza per l’umanità e per la Chiesa, ha saputo rimettere nelle mani della Chiesa la bandiera della speranza, che sembrava di nuovo smarrita, dopo gli entusiasmi del Concilio, tra i contrasti postconciliari (pp. 52 e 132). Era convinto infatti, a differenza di molti uomini di Chiesa occidentali di quel periodo, che l’ondata della secolarizzazione non fosse irreversibile, che anzi il suo punto culminante fosse ormai alle nostre spalle e che il grande compito della Chiesa fosse la missione, l’evangelizzazione intesa in senso forte e pieno, come capacità di portare Cristo al centro della vita e della cultura e quindi del divenire della storia. Perciò la Chiesa era chiamata a prendersi cura dell’uomo, senza timori e fino in fondo, nel concreto delle diverse situazioni. Doveva “stare dentro” ai tempi nuovi, senza sterili nostalgie, con una forte capacità di comunicare nei linguaggi del presente e di anticipare il futuro, mantenendo però tutto lo spessore e la densità umana e popolare della sua fede e della sua pastorale. L’envagelizzazione così intesa comportava necessariamente la rivendicazione di uno spazio pubblico per la Chiesa (p. 31). Karol Wojtyła-Giovanni Paolo II si è battuto per questo nei confronti dei regimi comunisti: emblematica la sua frase, pochi giorni dopo l’elezione al pontificato, “la Chiesa del silenzio non c’è più”, perché d’ora in poi avrebbe parlato con la voce stessa del Papa (p. 64). Ma lo ha fatto con la medesima energia e determinazione quando si è trattato di difendere e proteggere la vita umana, la famiglia, la donna, i popoli della fame di fronte a un’opinione pubblica e a governi occidentali segnati dal conformismo, dall’egoismo, “dalla supina accettazione di una libertà senza confini” (pp. 101-102).
Meno noto, anzi a volte misconosciuto, ma non meno importante è il suo impegno per la riforma interna della Chiesa, nella linea indicata dal Vaticano II. Già da arcivescovo di Cracovia ritornava spesso sul tema della “Ecclesia semper purificanda”, oltre che sulla Chiesa-mistero e sulla preminenza della dimensione del mistero rispetto a quella dell’istituzione: una Chiesa, dunque, destinata a essere sempre meno “clericale” (p. 79). Posso confermare di aver sentito anch’io direttamente dalla sua bocca parole che andavano in questa direzione. Perciò ai suoi occhi la celebrazione dei duemila anni della nascita di Gesù rappresentava un momento storico decisivo, un punto di svolta per il cristianesimo ma anche per l’umanità: è questo lo spirito con cui ha promosso e vissuto il “Grande Giubileo” ed è questo il senso di alcune sue scelte altamente significative, che non furono esenti da critiche severe, provenienti anche, e forse soprattutto, dall’interno della Chiesa. Pensiamo alla richiesta di perdono per i peccati dei figli della Chiesa, pensiamo alla volontà di andare avanti sulla strada dell’ecumenismo, che per Giovanni Paolo II era volontà di Cristo, come tale da promuovere “indipendentemente” dalle difficoltà, dalle offese e dai malintesi. Pensiamo al dialogo tra le religioni e alle Giornate di Assisi (pp. 80-85).
Certo, nel realizzare la riforma delle strutture della Chiesa Giovanni Paolo II ha incontrato degli ostacoli e non sempre ha ottenuto grandi risultati. In particolare ciò si è verificato su un tema che pure condivideva profondamente, quello dell’esercizio effettivo della collegialità episcopale. Il grande pellegrinaggio che lo ha portato a fare, con i suoi viaggi apostolici, sette volte il giro della terra ha favorito il rilancio della dimensione universale del cattolicesimo e il rafforzamento dei legami tra la Santa Sede e le Chiese locali: e questo, si chiede intenzionalmente il Cardinale Dziwisz, “non era forse, di per sé, un freno al cosiddetto «centralismo romano»?” (p. 53). Il medesimo Cardinale osserva però che su questo terreno Giovanni Paolo II non ha voluto procedere da solo, mentre la grande maggioranza dei vescovi non era ancora preparata (pp. 89-90). Personalmente vorrei aggiungere che, sul punto irrinunciabile della difesa della fede e della forma cattolica della Chiesa, i Pontefici del dopo Concilio – non solo Giovanni Paolo II ma anche Paolo VI e Benedetto XVI – si sono spesso trovati a dover prendere quasi tutto il peso sulle proprie spalle, per le difficoltà di molti episcopati a cogliere il senso e la portata di questa sfida.
Il discorso sulla riforma interna della Chiesa solleva inevitabilmente la domanda sulla Curia romana. Il Cardinale Dziwisz, che ha vissuto in prima persona i rapporti tra la Curia e Papa Wojtyła, osserva che, dopo le difficoltà iniziali ad accettare il “Papa polacco”, questi rapporti divennero buoni. I tempi però non erano forse maturi per una riforma generale della Curia romana e la Curia stessa non era pronta ad essere ricondotta “alla sua effettiva funzione di servizio per il Papa e per i vescovi” e quindi a diventare “un autentico strumento di comunione tra la Santa Sede e le Chiese locali”. D’altra parte Karol Wojtyła, pur dando le direttive, sempre con chiarezza e precisione, non aveva alcun interesse per il potere come tale e non pensava che il Papa fosse tutto, “intendeva il governo della Chiesa in termini di collegialità e, per la sua esperienza polacca, di sussidiarietà”. Soprattutto, guardava sempre lontano, gli importava di seminare e non era assillato dall’idea di dover vedere subito i risultati (pp. 61-62). Di questo suo stile di governo posso dare una conferma personale: Giovanni Paolo II aveva un acuto realismo, conosceva bene l’importanza dei rapporti di forza e non aveva alcuna tendenza a fuggire dalla realtà. Tante volte mi chiedeva come le cose stessero effettivamente e non gradiva se si cercava di indorarle. Questo suo realismo era però sempre ricompreso nell’ottica della fede che cambia la storia, dell’umiltà e della carità che sa perdonare con larghezza di cuore. In concreto, governava molto nel senso di esercitare la leadership, era un leader naturale e tuttavia (cosa rara) non esclusivo, bensì alla ricerca di altri leaders che lavorassero al suo fianco. Non era quindi per nulla un protagonista solitario, ma piuttosto la guida di un popolo multiforme e organico. Può essere opportuno distinguere, a suo riguardo, tra “piccolo” e “grande” governo. Nell’udienza che mi diede nel dicembre 1990 per comunicarmi che intendeva nominarmi suo Vicario mi disse più o meno così: “Io non posso occuparmi delle cose minori e nemmeno lei dovrà farlo, nel ruolo di Cardinale Vicario”.
Il Cardinale Dziwisz sottolinea a più riprese le analogie tra Giovanni Paolo II e Papa Francesco e confida che l’attuale Pontefice faccia fare un decisivo passo in avanti all’esercizio della collegialità episcopale e alla riforma della Curia (vedere ad esempio le pagine 19-20, 50-51, 59-60, 90, 113-114, 117-118, 136-137, 141-143). Personalmente sono colpito dalla somiglianza che riscontro tra Giovanni Paolo II e Papa Francesco nel sentirsi anzitutto Vescovo di Roma e nel vivere intensamente e quotidianamente questo ministero.
Sarebbe comunque un grosso abbaglio individuare nei limiti dell’azione di Giovanni Paolo II per la riforma interna della Chiesa il segno di una scarsa incidenza concreta del suo pontificato. In realtà il suo influsso e la sua eredità sono stati e rimangono giganteschi. Da lui, per grazia del Signore, è nato “il suo popolo, il popolo che Giovanni Paolo II ha accompagnato verso una nuova esperienza di fede. Una fede più semplice, più trasparente, non caricata di pesi inutili, e insieme una fede più cosciente… Capace di trasformare dei credenti tiepidi, impauriti, in autentici seguaci del Vangelo in grado di affrontare, da cristiani, le complessità e le contraddizioni del mondo moderno” (p. 130). Un popolo che esisteva certamente già prima del suo pontificato e che Giovanni Paolo II ha riconosciuto anzitutto nei nuovi martiri del XX secolo. Un popolo di giovani attirati – specialmente ma non solo attraverso le Giornate Mondiali della Gioventù – dalle sue parole esigenti, senza sconti, dall’invito ad andare controcorrente, a diventare santi (p. 87). Il popolo dei nuovi movimenti ecclesiali che Giovanni Paolo II ha saputo accogliere con gioia e aiutare a crescere e a maturare. E, assai più in generale, il popolo di tutti quei credenti che hanno condiviso con lui il senso della fede e della missione della Chiesa, una missione nella quale c’è per tutti un grande spazio, dove possono trovare posto le caratteristiche di ciascuno. Anzi, come è diventato manifesto soprattutto alla sua morte e ai suoi funerali, Karol Wojtyła è riuscito a trasmettere speranza e a offrire punti di riferimento interiori anche a moltissime persone non credenti, o che comunque da tempo avevano abbandonato ogni appartenenza religiosa. E queste persone hanno incominciato a interrogarsi su un Dio trascendente rispetto alla storia umana e però presente e capace di incidere in essa (pp. 130-131).
Così, essendo senza alcuna separazione uomo di preghiera e uomo di azione (p. 107), Giovanni Paolo II ci ha mostrato il volto umano di Dio e ci ha aiutato a riscoprire il senso della nostra umanità, in un mondo che tende “a livellare tutto, le persone come i valori e i sentimenti” (p. 145). E’ questo il segreto della sua grandezza e il senso dell’eredità che ci ha lasciato.