Zaccheo, desiderio, ricerca e possesso di Dio

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 Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua (Sal 62, 2). Nell’uomo esiste una pressante forza originaria che gli sgorga dal profondo del suo essere: il desiderio e la ricerca di Dio per possederlo.

Un uomo, piccolo di statura e ricco di beni, si arrampica su un sicomoro perché arde dal desiderio di vedere Gesù. Il suo nome è Zaccheo, che vuol dire “Dio ricorda”, e Dio realmente si sta ricordando di lui. L’evangelista Luca così dipinge il personaggio e l’avventura della sua conversione (Cf Lc 19, 1, 10).

Zaccheo non è un pubblicano qualsiasi ma il capo della corporazione dei peccatori pubblici, comunemente scomunicati. Era malvisto sia per la complicità con l’occupante romano nella riscossione delle tasse, sia per la tendenza ad arricchirsi a spese del contribuente. Certo, non è scena consueta quella di vedere un uomo ricco, piccolo di statura, con un ruolo notevole, arrampicato, come una scimmia, su un albero di sicomoro! Perché questo gesto inconsueto? Alla sua posizione economica fa da contrasto la sua crisi religiosa che lo spinge a “cercare” e a voler “vedere” Gesù. L’evangelista Luca nota che il piccolo pubblicano cercava di vedere Gesù in faccia…e per poterlo vedere, salì su un sicomoro. Quest’albero, nella Bibbia, appartiene alla famiglia dei fichi e i rabbini insegnano che “stare sotto il fico” significa essere alla ricerca della verità. Osservando la storia dell’uomo, ci si accorge come tanta gente si arrampica su altri alberi, talvolta dai frutti dannosi e velenosi e, Dio non voglia, su quell’albero dell’autonomia morale, il cui frutto rimane sempre proibito e mortifero, posto nel giardino paradisiaco dell’Eden, dove germogliò la vita e dove, purtroppo, nacque anche la morte (cf Gen 2, 16).

Il piccolo e ricco pubblicano non cerca Gesù, solo per curiosità, egli desidera conoscerlo di persona. Sappiamo che Gesù “è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto”. Dio e l’uomo sono sempre in cerca l’uno dell’altro. La misericordia, quand’è vera, sopprime le distanze. La fede, come l’amore, è un continuo cercarsi per possedersi. Gesù, come allora, continua ad attraversare le strade del mondo in cerca dell’uomo, ma opera i prodigi solo per chi desidera vederlo e incontrarlo. Abituati ormai al tutto programmato, ritualizzato, preordinato, coreograficamente ingessato, forse in noi si è spento quell’ardente desiderio di vedere e d’invocare la luce e la gioia della redenzione. Nel delicato momento dell’incontro sacramentale tra Dio e l’uomo, talvolta, si delega ad altri l’invocazione della misericordia: Kyrie, eleison e professione di fede: Credo!  L’atto di fede è, innanzi tutto, gesto di purissimo amore, perciò non è mai delegabile ad altri. Sarebbe un tradire l’amore se gli sposi delegassero ad altri i loro gesti d’amore! Talvolta, purtroppo, le maschere del ruolo bloccano il desiderio della visione, l’entusiasmo della ricerca e la mistica quiete dell’incontro col Mistero; ma sono questi i gesti che salvano Zaccheo. Egli, mentre pensava di essere lui a cercare e voler vedere Gesù, si accorse di essere cercato e visto quando Gesù alzò lo sguardo verso di lui.

Dopo l’albero, il luogo della chiamata è la casa, ambiente nel quale si trascorre la vita quotidiana. Il Santo di Dio sceglie la casa di un peccatore; l’amico dei poveri va a cenare alla mensa di un ricco. La salvezza è donata nella cena in casa del peccatore che fa esperienza della gratuità del dono divino. Allo sguardo segue la chiamata: Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua. “Devo”, è un’esigenza di cuore; “a casa tua” è il luogo dell’intimità di cuore. Gesù non costringe Zaccheo con la forza, lo attrae con lo sguardo e le parole d’amore. “Rimanere a casa” indica la comunione tra l’ospite e la persona che accoglie. In quella casa-comunione è celebrata la salvezza che Gesù realizza solo a ogni incontro personale con lui. Desiderio di vedere e di incontrare, è realizzare comunione. La cena in casa, da celebrazione penitenziale, si trasforma in agape fraterna. In ogni incontro con il Verbo-Carne e Cibo di Vita all’interno del tessuto ecclesiale, c’è sempre la misericordia di Dio che si rende presente all’uomo attraverso lo sguardo e la chiamata delle misteriose realtà che, dalla creazione, vanno alla Chiesa sacramentale nell’alveo degli incontri umani che rendono epifanici i gesti dell’Amore creatore e redentore. Tutto ciò non è opera dell’uomo che vive nella dimensione di un dovere costrittivo, talvolta insopportabile, a guisa di dovere morale kantiano; la conversione è opera dell’amore misericordioso di Dio, ed è quello stesso amore che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato (Rm 5,5). Lo sguardo del cuore dell’Amante accolto, diventa sguardo del cuore ridonato all’amato.

Intanto, tra l’indifferenza dei muti osservanti, chiusi e immobili nei loro schemi di pregiudizi, all’interno di una fede da apparato di palcoscenico, Zaccheo, nella liturgia del pentimento, fa questa promessa: Io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto. Egli è pronto a rimborsare più di quello che, per i furti, esigeva la legge ebraica e adotta la riparazione prevista dal diritto romano, cioè l’ammenda del quadruplo. La giustizia sociale, primo frutto di quella conversione, si completa nell’amore per il prossimo che va oltre la pura restituzione. La cena si trasforma così in sacramento di salvezza: Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. La promessa fatta ad Abramo consisteva nella salvezza in Cristo. Gesù realizza così la salvezza facendo memoria per i secoli futuri: Il Figlio dell’uomo, infatti, è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto. Quell’“oggi”, che riguarda gli uomini di tutti i tempi, è caratterizzato dalla “fretta”, cioè dalla volontà che spinge Gesù a incontrare ogni uomo per salvarlo.  Gesù passa sempre sulle strade del vivere quotidiano ed entra nella casa di quel cuore dov’è desiderato e accolto. Fissare lo sguardo su di Lui significa scrutare i segni dei tempi; lasciarsi penetrare da quello sguardo, è già ricevere salvezza.

Talvolta, il cerimoniale di un’estetica non teologica rende il nostro sguardo non limpido, superficiale e frettoloso, disincarnato, pomposo e stanco. Solo la “purezza di cuore” dona agli occhi lo sguardo penetrante per l’ascolto e la visione di Dio. Zaccheo, in quella circostanza, intuisce che il luogo migliore per incontrare Gesù è la “comunità”. Questa stessa comunità, però, rischia di diventare causa del “non incontro” perché, avendolo giudicato peccatore e perciò escluso, non è in grado di aiutarlo per favorire l’incontro, anzi, disapprova Gesù che si autoinvita ed entra in casa di Zaccheo. Può capitare che, di fronte a chi ottiene la salvezza, si trovi chi è dispiaciuto. Questa volta, scrive Luca, non sono tanto i farisei ma è la stessa folla che crede di sapere e, perciò, di insegnare come deve agire un profeta.

I falsi credenti, sempre presenti nelle comunità senza Vangelo, continuano a essere convinti che il profeta, per esigenze religiose, debba stare lontano dal peccatore, perché, se Dio è Santo, non deve avere nulla in comune con gli “impuri”. Gesù pensa e agisce in modo diverso e rende il suo pensare-agire non popolare agli occhi di certo tipo di credenti, ma proprio agendo in questo modo Gesù salva la libertà.

E’ verità risaputa che dinanzi allo sguardo di Dio siamo tutti uguali, anzi, se Dio ha qualche preferenza, quello sguardo lo rivolge, non al “giusto per professione”, ma a quel peccatore arrampicato sull’albero del desiderio di vedere Dio per poterlo incontrare personalmente e ricevere da lui la salvezza. La pedagogia di Dio è penitenziale, essa educa al pentimento, alla riconciliazione, alla fiducia verso i Creatore. Lo stile di Gesù buon pastore è lasciare le novantanove pecore per andare in cerca della perduta, e trovatala se pone sulle spalle e, accoltala con amorevole gioia nell’ovile, la rigenera con i gesti della divina tenerezza.

Bisogna arrampicarsi sul sicomoro della visibilità per scavalcare gli ostacoli degli apparati della non visione. Lo sguardo del cuore si spegne quando l’idolatria d’iniquità soffoca, stordisce, disorienta e addormenta le coscienze. La lampada di Dio è sempre accesa per farti vedere tutti i gesti del suo amore; è luce che illumina il tuo sguardo perché anche tu possa penetrare nel suo cuore; è splendore che smaschera la religiosità contaminata da quel pericoloso clericalismo che domina e distrugge le coscienze; è chiarezza di visione che dona purezza di fede nel primato dello sguardo del volto di Dio nel volto di ogni persona. La fede, come l’amore, è tutto un gioco di sguardi che hanno il dono di uscire dal cuore e di penetrare nel cuore del dialogo d’amore: Cor ad cor loquitur! Questa è la Divina Liturgia del Logos e dell’Eucharistein all’interno dell’Ecclesia, Corpo di Cristo.

Quanti “Zaccheo”, arrampicati sul sicomoro della ricerca di Dio, sono in attesa di ricevere lo sguardo di conoscenza e della voce d’accoglienza da parte dei “sacramenti di Cristo” che sono i “pastori” della stessa Chiesa di Cristo! Solo i veri cristiani, liberi da pregiudizi, paure e commenti da parte dei falsi credenti senza Vangelo, sanno riscoprire l’ampiezza universale della redenzione nel sapere accogliere, all’interno delle coordinate storiche d’amore, quei Semina Verbi che il Logos fa germogliare in pienezza di verità e di carità.  L’invocazione a Dio, nelle Confessioni di sant’Agostino, ci fa cantare: Tu che ci hai fatti per te, ci doni la gioia di lodarti; e il cuore non trova pace fino a quando non riposa in te (Ant.  alle Lodi). La conversione è libera opera di Dio, chi mai porrà limiti alle imprevedibili manifestazioni della sua misericordia?

 

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